lunedì 1 novembre 2010

La caduta delle foglie d'autunno

Cara Darianna, tu esprimi tante idee 'tue', che mi scoraggi se voglio rispondere a tutto; ma va bene così. Io espungo solo un qualche concetto come quello su Dio, il quale costituisce, secondo te, l'assoluto di ciascuno.
Per me non è così. Vado perdendo il concetto di assoluto nel senso stretto della parola, ma faccio del rapporto con me stessa un laboratorio di sofferente paziente speranzosa ricerca. Ogni giorno cade nel mio autunno spirituale una o più foglie; so che cadranno tutte; e mi piace questo aspetto del cambiamento delle stagioni. Parole sacrosante come amicizia, impegno, e tutto ciò che si riferisce al modo di gestire il rapporto con me stessa e con gli altri, scivolano pian piano sulla terra umida a marcire, e intanto tra i tronchi denudati si fa spazio maggiore per l'attraversamento della luce. Appena le mie sofferenze risultano sopportabili, tutto, anche questa caduta degli assoluti, mi dona serenità e senso di abbandono fiducioso verso Chi ha vovoluto che io esistessi.
Ci sono tanti rimescolamentti nella mia vita interiore, così interessanti, da poterli esprimere solo in poesia. Ed è a questa che mi dedico preferibilmente in quest'ultima mia fase di vita. Ho tanto da dire, soprattutto agli spaventati del mio pessimismo (chi si permette chiamarlo così?) perché non è mai brutta la verità che ne risulta, appunto perchè è sempre un po' più vera della precedente. La depongo in un braciere perchè arda, bruci, fosse anche per distruggere, se ci sono cose da distruggere.
Ma quanto a fare dell'io il proprio Dio, NO NO NO. Ne parlerò un'altra volta. Tua Ausilia

domenica 31 ottobre 2010

Riflessioni libere

Non so se sia effettivamente giusto dire "riflessioni libere" per il tentativo di esprimere un segmento di pensiero. Forse avrei dovuto titolare questo messaggio come riflessioni non necessariamente coordinate, e questo per eludere il tema che mi corre nella testa e che si richiama ai messaggi precedenti. Forse il titolo più adeguato sarebbe "parliamo con dio", ma quante cose avrei dovuto dare erroneamente per scontato? Troppe!
C'è la diffusa opinione che vi sia un solo dio che ciascuno chiama ed individua nella modalità che più gli è consone. Opinione diffusa che si contraddice da sola nel momento in cui in troppi si affaticano a diffondere una loro visione di questo dio, come l'unica visione possibile e vera. Se il dio è unico, perché affannarsi tanto? Si affannano tanto a girare il mondo in lungo ed in largo per portare la loro visione, perchè profondamente sanno che non è vero che vi è un solo dio, ma che vi sono tantissimi dei, tanti quanti sono le persone che hanno un pensiero assoluto. Direi che è la mistificazione non superata dell'ultima evangelizzazione che vorrebbe assimilare per inculturazione chi non è assolutamente assimilabile. Ma ciò che importa è dare l'impressione di un pensiero unico, di un unico riferimento, di una unica possibilità di gestione e di comprensione delle cose. Tutto gira intorno a questo pensiero assurdo di unità che troppo arriva ad assomigliare a quanto scritto nel capitolo 11 della Genesi; si, la così detta storia della Torre di Babele. Questa pretesa di unità, questa pretesa di unicità, questa pretesa di riportare tutto ad uno, ad una esclusiva norma, non è altro che la replica di quanto raccontato in quel capitolo, così come il disastro sociale, politico, economico e, soprattutto, culturale di cui siamo autori e spettatori, altro non è che il logico epilogo di questa ripetizione ottusa di quella narrazione mitica e simbolica contemporeaneamente.
Si dovrebbe avere il coraggio di parlare del proprio dio, così da avere il coraggio di parlare con il proprio dio. Coraggio di vedere le differenze, di enfatizzare le diversità, scoprire come ciascuna persona poi esprime con questa sigla "dio" i propri assoluti etici, morali, ideologici o, molto più semplicemente, i propri interessi soggettivi.
Parlare con dio, parlare ciascuna persona con il proprio dio, significherebbe compiere un atto di verità con se stessi e se stesse. Significherebbe fare i conti veramente con il proprio assoluto e dialogarci se si ha questa possibilità. Provarci non è immune dal dolore, non è immune dal dover fare i conti con se stesse e con la propria storia; implica porsi nella dolorosa condizione di mettere a nudo se stesse di fronte ad un autoinganno che si è perpetuato per tutta la nostra esistenza. Implica trovarsi di fronte a se stessi e non potersi più nascondersi.
Ma poi, ne abbiamo veramente la voglia?

domenica 24 ottobre 2010

Parliamo di noi?

Cara Ausialia, parliamo di noi e parliamo a noi. Nei fatti più che a noi stesse, con quale raro ascoltatore o ascoltatrice, non possiamo parlare. Uso il termine "parlare" perché ho la presunzione (per quanto mi riguarda) e la stima (per quanto ti riguarda) che le nostre siano "parole" e non "chiacchere". La parola è performativa, la chiacchera è un passatempo che, nella generalità dei casi, mi annoia.
Se tu sei "Giobbe" io non ti sarò certo "amica", ma "sorella" nel profondo di quel dolore che percepisci e che vivi, della rabbia sorda nei confronti di una società, di un mondo malato che rende sporca ed invivibile d irrespirabile questa terra ai suoi abitanti.
Io taccio, è vero! Taccio perché dovrei scrivere di quale rabbia e di quale dolore mi nutro quotidianamente a causa di coloro che sono potere e principati, che si arrogano il diritto di decretare vita o morte delle persone, semplicemente per loro calcoli opportunistici o per ingrassare i loro ventri. Ma, cara Ausilia, la rabbia più profonda ed il dolore più profondo lo ho per il silenzio dei giusti. Taccio, è vero! Taccio perché dovrei parlare di quel dio che avrebbe risparmiato Sodoma e Gomorra se solo vi fossero stati 10 giusti! Taccio, perché dovrei parlare e dire il perché quel Gesù intimò ai suoi di non chiedere la distruzione.
Ho dolore per quello che vedo quotidianamente, per quello che quotidianamente devo combattere e per quello che quotidianamente è il luogo della mia lotta. Ho rabbia perché i molti che potrebbero dire anche solo una parola non lo fanno, così che le nostre grida sono lanciate nel deserto di una società che è divenuta incapace di capire ed udire parole, per crogiolarsi e bearsi delle chiacchere.
Nel gran vociare del mercato delle chiacchere, accade anche poesia, ma è rara ed alimenta il dolore, ed acuisce la rabbia.
Gli ignavi si scandalizzano, perché è più semplice stare attaccati a qualcosa che sparati nell'universo come una incognita, più semplice credere che non aver fede. Troppo spesso gli ignavi confondono le due cose, e troppo spesso si adeguano a ritener di essere soggetti dell'una e dell'altra.
Spogliata degli stereotipi, dei pregiudizi, malata guarita della malattia di questo mondo (cosmos), come guarita ho compreso che è il mio dio che ha fede in me, tanto da pensare che - nonostante tutto - rimarrò fedele al mandato. Non saranno gli eventi a farmi tacere. Si, lo so, io sto tacendo qui, perché altrove sto urlando come urla chi lotta e si lancia nella mischia, ed io urlo come chi sa bene che potebbe essere l'ultima.
Conto i giorni che cadono come gocce da un vecchio rubinetto, come sabbia che scorre in una clessidra. Arrabbiata, esausta giro ogni giorno quella clessidra per contare il tempo. Così rimangono sei giorni, in un susseguirsi di ritardi e rimandi, di acquisizioni e successi, di prospettive come promesse che non potranno forse mai essere mantenute, eppure vere, reali, pesantemente concrete.
E mi chiedo fino a quando? E non ho un dio che può, piuttosto può nella misura che io posso, ha potere nella misura che io ho potere, esprime potere nella misura che io esprimo potere. Si, perché di potere si tratta! Ed io ho potere, per questo ancora lotto, per questo ancora mi batto. Ho potere e lo gioco, fino in fondo, fino alla feccia. Lo gioco perché può essere l'ultima mia possibilità di giocarlo, e guardo gli altri, i tanti altri - ma non tutti - che questo potere non lo giocano e lo nascondono a se stessi ed agli altri, e mi chiedo a quale fine?
Per chi ha futuri forse un fine c'è, ma per me che non ho futuri non vedo fini o scopi. La mia esistenza si concluderà ad un certo punto, e con essa anche la possibilità di aver memoria di me, se non negli altri, nelle sperdute ed inutili pagine che ho scritto, nelle parole che ho pronuciato, negli atti che ho compiuto, nell'inutilità di una esistenza che si compie nel suo assurdo e vuoto/pieno significato. Si, perché io posso (ho potere) spendere e sprecare la mia esistenza pur di vivere fino in fondo, fino alla feccia, chi sono. Lo posso fare, ho questo potere e lo faccio.
Un tempo ero serva di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; un tempo sono stata figlia di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; ora sono amica di questo dio che non è più mio ed io non sono più sua. Non chiedo e non prego. Oggi parlo anche con questo mio amico, con lui mi confronto e gradisco la sua fiducia.
Sto arrivando alla convinzione che, per quanto io sia stata sconfitta sotto ogni aspetto della mia esistenza, io comunque ho vinto. Si, ho vinto perché comunque io dalla malattia di questo mondo sono guarita.
Ti abbraccio

sabato 2 ottobre 2010

Parlo con te, preghiera

Mentre tu, Darianna, taci, ed è facile capire perché, io scrivo ancora.
Mi chiedo a chi vada la lettura di questi miei abbozzi. Forse sono io soggetto ed oggetto di questa scrittura. Potessi far capire ciò che 'passa' dentro di me, non sarebbe inutile a nessuno, né ai miscredenti totali né ai fervidi seguaci di un pensiero di fede che forse hanno assimilato da quando erano bimbi.
Parlo invece con te, preghiera, che almeno sei sempre lì ad aspettarmi.
La prima cosa che ti dico è che mai come ora mi sono sentita disperatamente sola e mi sei rimasta solo tu. Mi appartieni; sei l'ordito in cui hanno (ed ho) tessuto tutto il resto di me. Sei l'unico genitore rimastomi, che compendia tutte le persone a cui sono stata apparentata.
Perciò ti tengo stretta a me: in te riconosco il bisogno di sapere che non sono venuta sola al mondo, e se lo sono diventata, fino a che emanerò l'ultimo respiro, tu resterai con me, così come sei: il tu-ignoto, o il tu dentro il quale c'è forse qualcuno Ignoto. Come potrebbe vivere un io senza un tu? Ti accetto così come sei, purché possa parlarti come ad un tu.
Ma l'ultimo istante vorrò dirti: cosa vuoi ormai più? Ti ho pregato perché ti ho riconosciuta parte-altra di me; sei l'unica che sei stata sempre a mia disposizione, e anche quando io facevo la sorda, tu restavi ad aspettarmi.
Ora, tra non molto, ci lasceremo. E’ bene che ci diciamo le cose fino in fondo.
Ti rimprovero e ti ammiro perché non mi hai detto mai dove andrò; tu lo sai che, quando mi prestavi in formule delle risposte, io non ci credevo, tanto erano rozze e dissennate, melliflue o sciocche, retoriche o pietose.... (Solo qualcuna, sublime poesia, fa nobile eccezione). Le recitavo come fossi stata una bimba che succhia inconsciamente il latte materno senza preoccuparsi di altro che di sfamarsi e di abbracciarsi a quel petto che glielo dava. Sì, conforto me ne hai dato; ma anche abbandoni, nausee (di te); mi hai fatto provare la vicinanza di Qualcuno e di Alcunché, ma a volte ti prendevi gioco di me, facendomi sparire tutto e mi lasciavi parole che ripetevo senza sentimento o mi rifiutavo di ripetere a pappagallo.
Ora, verso la fine comincia la festa, così bene anticipata dalle meravigliose costruzioni poetiche e sonore?
Penso piuttosto che comincia già ora l'occultamento nel ventre dell'universo, dove sarò ridotta a quasi-nulla. Ma allora, dimmelo questo per favore, che c'entra ogni aspettativa con la vita che ho condotta finora?.
Non insisto su questo tasto, perché i 'pusilli' si scandalizzano; vogliono che parli di anima, di spirito, di Dio. Io non so nulla di tutto questo, ma mi comporto mentalmente e nei momenti di resipiscenza, "come se ci fosse".
Tu, invece, preghiera, non richiedi una fede. Mi metti in bocca ed in cuore parole, così come 'mi vengono', senza tener conto se non corrispondono alle formule. Io, per compensarti della tua magnanimità, sai cosa farò quando ti userò per 'ultima volta? Ce la metterò tutta a raccogliere i miei sentimenti, pensieri e virtù teologali per emanare un grido di severo rimprovero a chi appesta il mondo con ogni specie di male e di dolore. Tu non hai fatto nulla a favore di quanto io anelavo riguardo a ciò; forse non potevi; non sei che una impotente altera-ego. E a me non resta che la rivincita di sfogare tutta la rabbia contro il mal-vivere di tutti nel mondo.
Dopo di che, reciterò il mio ultimo AMEN.
Sì, amen, perché, lo riconosco, c’è tanta ricchezza in me. So che - sarà stato grazie al tuo aiuto, o preghiera - il bene l'ho cercato e l'ho amato davvero, e per esso, e solo per esso, ho lasciato che la mia vita continuasse accanto a chi CAPISCE COSA E' SOFFRIRE. A modo mio, io, disperatamente sola, ho cercato - almeno dentro di me - di stare accanto ai disperati della terra.
Se in cambio di questo potessi ottenere un po' di pace.... Ma no, allora mi smentirei; sarebbe il crollo dell'unica idea sana che mi fa partecipe del mondo.

mercoledì 29 settembre 2010

Parlo al dio di Giobbe

Cara Darianna, tu sei priva di speranza e me ne dispiaccio. Ma io sarò più catastrofica perché dirò la verità che tutti vogliamo nascondere nei modi più ambigui. Mi si rimprovererà la mai mancanza di fede e mi considereranno perduta moralmente e spiritualmente? Facciano. S’accomodino in salotto a parlarne. Io questa volta voglio parlare così. Questa libertà me la prendo col dio di Giobbe.:
Sofferenze parlano in modo vario nei visi di persone provate dalla sventura.
Permettetemi di cominciare dal coniglione che se ne sta chiuso (in una casa dove vivo per un po’ di tempo) SEMPRE in una gabbia che appena appena lo contiene. Non gli fanno mancare cibo né acqua perché deve vivere per dare a gente stupida la soddisfazione che esiste un vivente d’altra specie, da accudire, da guardare una volta tanto (non tanto). Lui qualche volta batte non so cosa quando vede qualcuno che si muove dietro la sua prigione senza spazio vitale. Ho provato a guardare i suoi occhi. No so se implorassero liberazione, ma certamente portano stampata l’atrocità della sofferenza: e sì! Questa la capiscono gli animali, e la vivono nell’infelicità assoluta. Mi verrebbe da gridare che la ferocia umana è insopportabile, che io non ci sto bene per questo in un mondo fatto così.
E non mi si dica che ci sono moltissime altre sofferenze, soprattutto quelle umane. Elimino subito questo termine ‘soprattutto’. Il martirio del coniglio non è uno che si aggiunge agli altri come un oggetto si accumula agli altri. Il coniglio è un essere singolo che patisce, smaltisce in sé il destino notte e giorno, SEMPRE.
Vi assicuro che le sofferenze di tutti me le sento addosso, e se parlo del coniglio è perché lo vedo ogni giorno. Mi sarebbero più sopportabili le mie, se fossi io un’eccezione. Invece che visi, Dio mio! Gente trasportata in carrozzella: chi le guida sempre soddisfatto di offrire una divagazione; ma il sofferente è un rassegnato, piegato ad un’insopportabile inerzia. Ma la vita per lui c’è solo per poter digerire il suo stato pietoso: perché?
E poi, e poi? Vi pare che ignori le schiavitù di ogni giorno, solo perché ho accennato a queste?
Predicatori di ogni giorno, retori tutti! anche se sotto i panni di ‘pezzi grossi’, politici soprattutto: vi ODIO. Lasciatemelo dire. Vi associo senz’altro ai mafiosi. Tutti, altrimenti vu contentereste di un piccolo stipendio: o fate questo o non credo in nessuno di voi.
Solo di tratto in tratto si vede qualche luogo – ahimè quanto pochi ce ne sono! – dove si sfrutta quel che di vitale sussiste in queste vite morte e si ridà modo di vivere la loro vita in una forma di normalità accettabile. Fino a quanto si prenderanno cura di questi? Quando diverranno del tutto inabili, la crudele natura non potrà essere sconfitta, ed allora anch’essi ritorneranno ad essere conigli nella gabbia del proprio corpo e degli avari controllati spazi che saranno concessi a beneficio degli stipendiati attraverso la loro prigionia.
Ci si lamenta della mancanza del necessario per la sussistenza delle famiglie. Si vogliono stipendi più sicuri. A parte il fatto che spesso gli stipendi non bastano perché non bastano a soddisfare bisogni indotti, spesso inutili o dannosi, E’ questo il motivo del contendere tra destra e sinistra? Li sopporterei se si preoccupassero di questo (assieme a tutto ciò che è necessario perché non si muoia di fame e di freddo, di mancanza di istruzione e di mezzi per comunicare con la vita sociale… e non ho voglia di specificare). Ma ma ma…. La vita sociale è malata, e si rimedierebbe di più senza le politiche ladre a tutto tondo, da sostituire attraverso una gara a denudarsi di privilegi e di prestigio.
Ma, Dio mio, vuoi che questo mondo lo aggiustino questi signori, qualche verginella che prega in clausura, qualche devota di P.Pio & company?
Per ora mi fermo qui perché non trovo risposte e temo le risposte arroganti di chi parla di SPERANZA, senza pensare che questo mondo bisogna rifarlo daccapo, o…. che sia distrutto. Subito.

domenica 19 settembre 2010

Ritrovarmi ...

Scvrivo di getto, non ho altra possibilità di scrivere! Leggo le tue parole, Ausilia, e mi trovo portata a vedere ciò che faccio sempre finta di non vedere.
Come posso io aiutarti in un qualcosa? Non ho idea! Potrei dirti che chi non perde la propria vita non la trova, ma forse questo aiuterebbe? Non so, a me lascia un senso di profondo vuoto. Non riesco a leggere quanto hai scritto nella logica della dragma perduta, del tesoro nascosto, della perla di valore. Non riesco a trovare il nesso in me, e come ben sai non mi azzardo a trovare nessi in te. C'è gioia nel ritrovare qualcosa che si era perso, ma appunto che si ritrova. Ma quando si perde qualcosa o qualcuno e si ha consapevolezza che non lo si può più ritrovare, la gioia dove può essere ricondotta? Solo nella memoria dell'azione che imprime una eredità che si perpetua nel pensiero e nell'esistenza.
Scrivo così, perché leggo quanto hai scritto e tutto mi si riconduce, mi interroga sempre e comunque su me stessa. Io che sono persona che è stata costretta a doversi nuovamete inventare, nuovamente trovare, nuovamente ripensare, non mi sono poi praticamente ritrovata in cominciare "da capo", quanto un tentare malamente di continuare ad esistere sulle briciole che sono rimaste.
Sono arrivata alla convinzione - mai definitiva, ma pur sempre presente e contestuale - che nell'esistenza di una persona non c'è un punto ed a capo, quanto piuttosto un continuo, dove ciò che si trasforma sono quelle sensazioni, pensieri, impressioni che io chiamo "marcatori" della nostra esistenza. Quell'inisieme di cose che da aspetti e luci diverse nella nostra interpretazione dei nostri principi e presupposti.
La mia "vuotezza" dichiarata, che riversa quantità di cose senza un senso logico, come impressioni e sensazioni che si susseguono investendo - senza pietà e rispetto alcuno - altri, non sono che il prodotto di quei marcatori che mi fanno ritenere e mi fanno oggi comprendere come un "re mida" al contrario, poiché tutto ciò che tocco diventa fango e non oro, complice della stessa dimensione di assurdo e di ingordigia che caratterizza la figura di "re mida", così come caratterizza me e la mia storia di persona disutile e non nel senso evangelico del termine.
Ritrovarmi significa toccare con le dita e le mani intere questa mia predisposizione al fallimento, questa mia predisposizione alla sconfitta non voluta e sempre subita. Mi ritrovo, si, ma deprivata di ogni desiderio e di ogni spinta emotiva o affettiva; spenta nel senso del mio stesso vivere; condannata ad un esistere per responsabilità. Mi trascino, più che ritrovarmi, tutt'altro che interessata ad un nuovo inizio, poiché troppi ne ho iniziati, troppi sono finiti così che ogni volta mi è sembrato di vedere un film già visto, film di cui ora non ho più curiosità di vedere se qualche fotogramma mi è sfuggito.
Il film è lo stesso. Agire? Parlare? Impegnarsi? Dedicarsi? A fronte di cosa?
Veramente oggi tutto ciò che mi è di fronte appare come "pula", come "vento".
A nulla è servita la mia esistenza, a nulla serve, a nulla potrebbe servire.
A differenza di te, Ausilia, io non ho lasciato nulla perché nulla ho avuto. L'amara constatazione della mia esistenza è che nulla è servito e nulla serve; che per quanto attorniata da persone pochissime ci sono state, e quelle pochissime le ho trascinate nel baratro del mio nulla.
Anche io, carissima sorella mia, attendo di una infinita attesa solo per la serenità di chi ancora ha coraggio a volermi bene.
Darianna

domenica 12 settembre 2010

Rinnovarsi

Il ritrovare mi pareva ier l'altro bellissimo. Oggi il mio pensiero insiste su un altro punto: Si può andare oltre il ritrovare (se stessi come si era e con le cose che si avevvano), ma forse è più bello ancora avere una gran voglia di cominciare tutto daccapo. Anche se certamente in questo 'daccapo' c'è l'equivoco di poter rpetere-in-altro-modo, il fattore dell'umano più affascinante è il ri-crearsi; non fa niente che si possa prendere a nostra insaputa dal passato, ma non è questo che torna, sono io che ora lo riprendo e lo piego a quel che desidero oggi.
Mi è sempre piaciuta la parola desiderio. Ecco oggi voglio appagare il mio desiderio profondo: guardare a me e a tutto con occhi nuovi, come se il passato non contasse in quanto passato. Il nuovo è ciò che non muore; resiste al passato e resisterà al futuro.
Desidero.
Ecco, oggi nel paniere vuoto della mia mente c'è impressa questa semplice parola: desidero. Se quel che posso essere o fare non risponde al mio desiderio è perché non era una cosa nuova, e cioè destinata a morire.
Oggi metto un solo contenuto nel mio paniere: la pazienza d'attendere. Questa colora la visione delle cose: se va male, attendendo, andrà bene; se patisco qualche pena, attendendo, questa finirà. E se fosse bella? attenderò che si faccia l'armatura necessaria a resistere al tempo. A te, Darianna, e a tutte le altre amiche ed amici, Ausilia

domenica 5 settembre 2010

La gioia del ritrovare

Oggi ho perso il telefonino. Mi son sentita persa io: tanti riferimenti a persone e cose, di cui alcuni non saprei come ricostruire....
Lo trovo dopo tanta affannosa ricerca: era sotto il mio cuscino.
Dunque per avere un'esaltante gioia c'è bisogno - prima - di perdere. Aiutami, Darianna, ma anche altri che legge, a spiegarmi questo misterioso intreccio tra perdere e trovare. Sono sicura che senza quel perdere, una gioia simile a quella del ritrovare è impossibile, può avere tratti di somiglianza e niente più.
Io ho perso il marito e ben nove familiari (e non ne ho più!); ho perso di vista tante cose e tante persone e tanti luoghi e situazioni appaganti che arricchivano la mia vita. Ma cosa aspetto di ritrovare, se non cerco più ciò che è perduto, in quanto irrimediabilmente perduto?
E' bene che pensi cosa posso cercare di quel che ho perduto..... Ausilia

giovedì 19 agosto 2010

Quel che resta

Quel che resta
Come al solito quando tu ti effondi come un fiume in piena, io mi fermo ad afferrare un solo passo, per timore di sperdermi. Ecco l’espressione che più mi ha colpita:
“….. La convinzione che ancora qualcosa si possa dare sta finendo, e con essa la voglia e la possibilità della vita. Esisteremo, nella storia, come corpi! La storia scorrerà ancora su me, levigandomi ancora inutilmente, fino a quando la sequenza finirà”.
E’ certamente duro pensare alla fine di un qualcosa da dare. Che resta se si toglie questa possibilità, se non l’attesa che anche quel-che-resta, il corporeo decadente, venga “levigato”? Bello questo termine che mi fa pensare a tante similitudini: alla pietra levigata, alla scarpa lucidata, alla tomba di un marmoreo splendente, perfino ad un viso lucidato dal trucco…. Sono bizzarra con questi richiami della mia fantasia. Eppure, attraverso essi riesco ad aggiungere un mio pensiero.
Da un po’, nella mia quarta età, medito sul senso del togliere, diminuire, perdere. Sa’ che mi pare evangelico? Almeno io gli do questo senso. Ho cercato sempre di dar posto a Dio nel mio io, comprendente tutto di me, dal corpo allo spirito. Pensare che egli vi si possa intronare mi va molto bene. Sono sicurissima che il mio io assunto in Dio vive della stessa potenza di Dio (intendendo per potenza, le sue potenzialità infinite). Quante volte, invocando una persona cara che mi è mancata, io non so distinguere tra invocare lei o Dio. Certamente Dio non risucchia la persona nel nulla. Certamente il creato ha una sua eternità in Dio. Levigata (ma non truccata!). Ausilia

venerdì 13 agosto 2010

questa sera

Questa sera è una di quelle sere in cui si darebbero le dimissioni da ogni cosa! Dalla vita sostanzialmente! Non perché non si ritenga valido, piacevole, importante quanto si sta facendo, ma semplicemente perché si ritiene che il nostro apporto sia sostanzialmente finito. Ci sono giorni che si vive e sere in cui si sente il giungere della "sera" della nostra vita, così che la nostra esistenza si esaurisce da sola, come una logica sequenza.
Ma sono sere di giorni, e non sere di esistenze, per cui quella voglia di dare dimissioni da ogni dove, la trattieni pensando che domani, a mente lucida, potresti darle meglio,con maggiore considerazione delle cose, con maggiore razionalità di te e di quanto ti circola intorno.
Ma questa sera, la voglia di dare le dimissioni da ogni dove, si tradurrà semplicemente in un andare a dormire. Domani e dopodomani vedremo se questa dimensione di finitezza, persisterà. Se sarà ancora presente, allora si daranno le dimissioni, lasciando il campo ad ogni più pronta intelligenza, ad ogni più acuta osservazione, ad ogni più limpida strategia, ad ogni più valida consideazione delle cose.
Noi non abbiamo mai avuto parola, abbiamo preso parola con fatica, tanta, tanta! Ora dobbiamo ancora lottare per avere parola e ci si chiede il perché. Ma il perché può anche stare nel fatto che abbiamo finito di poter dire. La parola che abbiamo conquistata si è anche subito esaurita. Il tacere potrebbe essere adeguata condizione del nostro essere? Non so del vostro, ma persistente è la sensazione che lo debba essere per il mio essere. Forse, anche la possibilità di esserci può venire meno, in quanto non essenziale, non più richiesto ne da me stessa ne dagli altri. La convinzione che ancora qualcosa si posssa dare sta finendo, e con essa la voglia e la possibilità della vita. Esisteremo, nella storia, come corpi! La storia scorrerà ancora su me, levigandomi ancora inutilmente, fino a quando la sequenza finirà.
Bacio

domenica 8 agosto 2010

qual è il senso?

Non ho buone notizie da dare, tutto è come ieri e spero che non sia come domani. In questi tempi di attesa, di silenzio, di tensione, si aprono - qualche volta - delle finestre di riflessione su se, sul proprio "mondo", tali da potersi proporre come momenti di riflessione comune.
Si parla spesso di affetto, quando non si arriva a parlare di "amore": due parole forse troppo usurate dal tempo e svilite nel loro significato. C'è da chiedersi quale sia ancora il loro senso, quale il loro significato nel nostro contesto storico. Forse dovremmo inventare nuove parole per dire il loro significato? Forse dovremmo ridare spessore a qualcosa che è stato volgarizzato al punto di non aver quasi più senso?
Ma cosa si dice e cosa si vuole dire quando si parla di "amicizia" o si parla di "affetto"! Quale peso può veramente avere la frase "ti voglio bene"? Il linguaggio corrente ha trasformato queste parole in un generico e molto fluido intendere di un interesse non definito nel tempo e nell'intensità. Focalizzo la parola "amicizia" poiché ritengo che sia fondamentale, primaria! E ridiamo senso a questa parola senza produrci in pericolose definizioni o pericolose descrizioni, ma piuttosto scoviamo nella nostra mente quale sia il vero senso di questa parola "amicizia", poiché solo riscovando nella nostra memoria potremmo poi ridare senso alle altre parole, come affetto, amore e quant'altro.
Non ho molti amici ed amiche, piuttosto ho una considerevole quantità di conoscenze con le quali condivido anche molto, ma con le quali non c'è una reale comunione, una reale condivisione di "mensa".
La persona che definisco "amica" è la persona che conosco per quello che è, di fronte alla quale non ho alcuna aspettativa, ma di cui godo la sua esistenza e possibile presenza. Non prentendo la sua intelligenza, non pretendo alcuna cosa, piuttosto è lo scoprire quotidiano di avere una modalità comune nel pensare, nel procedere; anche nella diversità di pensiero la modalità è comune. Non c'è uniformità, piuttosto il riconoscersi ed il comprendersi, senza bisogno di trasferire sull'altra persona nostri desiderati, poiché sono sufficienti i suoi che non necessariamente sono i miei, che non necessitano di essere soddisfatti, ma che trovano soddisfazione nel quotidiano senza sforzo. Nell'esistenza si trova il vivere senza lo sforzo di doverlo fare.
Se c'è attesa, aspettativa, pretesa, necessità ... può esserci amicizia o non piuttosto delusione, bisogno, insoddisfazione? Di chi potrò mai essere io amica, che nulla chiedo e nulla do, ma tutto metto a disposizione e tutto uso?
Ed in ciò che metto a disposizione perché dovrei pensare a gratitudine? Perché dovrei pensare a ringraziare? Perché?
Il non senso del dare ed avere che mi svuota ogni termine che indica, senza definire, quello che è il vicendevole relazionarsi fra persone libere o liberate. E' il gioco sottile del giudizio del bene o del male che mi svilice la figura di fronte a me, pretendendo che io interpreti la maschera che ho di fronte senza godere di ciò che mi rappresenta.
Ma gioco basso o troppo alto nelle relazioni dove io sono di fronte ad un io sono che dialoga o tace, ma in ogni caso discute e ragiona con me su me per me.
Qual è il senso? Me lo chiedo e mi guardo in giro cercando, forse cieca, forse ottusa, forse abbagliata. Forse in quel dubbio interrogante che non mi lascia tregua, ma che mai prende il sopravvento uccidendo la vita che voglio vivere in questa mia esistenza, unica, che unica rimane anche se in compagnia.

sabato 7 agosto 2010

Lacrime ed Ave Maria

Da tempo impazzivo nel vuoto della grande Mancanza.
Finché tu, sorella da poco sparita, t'accostasti
alla pietra del mio cuore, e con veemenza la spezzasti.
Mai lacrime così dolci, mai tanta armonia nell'Ave Maria

che assieme recitammo...

domenica 1 agosto 2010

Solitudine

Emily Dickinson

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte - eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

martedì 13 luglio 2010

Sensazioni e pensiero

Ho sensazioni di niente e di una massa indefinita
di persone e di cose, di tanto sentire,
di tanto pensare pensare pensare.
Ma il pensiero mi sfugge, non so chi o cosa sia.

Il pensiero – il mio, almeno - non agita pensieri,
né li cerca né li trova né li guarda né li lascia guardare.
E se il fremere delle sensazioni pulsa alle sue porte
-da dentro, da fuori, è lo stesso- il suo segreto si addensa.

Le serrature si oppongono inerti se cerchi dentro il pensiero,
gelosamente nascondono l’ignoto come in uno scrigno.
Il pensiero trascende il pensare e l’oggetto del pensare:
entità fatta di vuoto, meglio: dello spazio di Dio

domenica 11 luglio 2010

Marciando

Non ricordo il modo esatto di chiamare il passo di marcia senza spostamento; ma di questo voglio parlare, perché non faccio altro che TENTARE di restare in moto (spirituale), senza progetti e senza quelle che tu, Darianna, chiami speranze, meglio speranza al singolare.
Sento però che potrebbe essere una straordinaria occasione di crescita questa esperienza stressante del mio spostarmi da un posto all'altro in cerca di dove farmi una finta-casetta da abitare, anche senza le classiche mura che definiscono una casa regolare.
Gli altri, ignoti - io a loro e loro a me - mi guardano e notano che c'è in me un travaglio non banale. Mi dicono tante cose i loro sguardi pieni di sbalordimento e di.... non so che: certamente non passo inosservata.
Intanto gli attimi, le ore, i giorni (con le loro terribili notti) sento che non passano invano. Ausilia

domenica 4 luglio 2010

Ancora avanti

C'è una parola che sempre pogno di fronte a me, in ogni contesto, in ogni situazione. Questa parola è "speranza". Lo stesso progetto sul quale sto lavorando da anni, in questa ultima sua edizione, l'ho chiamato "La Speranza".
Il motivo per cui ho dato questo nome al progetto e questa parola la pongo sempre di fronte a me, ritengo sia giusto esprimerlo in questo contesto. In effetti questo è il contesto meno legato a tutto quanto sto facendo, ma forse proprio per questo posso dirlo, posso esprimerlo nel suo significato.
Faccio sempre una netta distinzione fra l'esistenza e la vita, le considero due dimensioni diverse, per quanto possono essere estremamente intersecate. Dico e sostengo che la vita non è altro che una interpretazione dell'esistenza, ed è proprio questa interpretazione che fa differenza fra esistenza ed esistenza. Tutte le interpretazioni sono legittime, così come tutte le esistenze sono reali. Ma la mia esistenza come viene vissuta e, quindi, quale interpretazione vengo a dare alla mia esistenza? Quando, in altre parole, trovo senso alla mia esistenza? Trovo senso quando nei fatti lavoro e impiego le mie energie nella realizzazione di un progetto. La parola "speranza" diventa quindi quella che più radicalmente e più esattamente esprime la mia modalità di interpretare la mia esistenza. La speranza non è una attesa di un accadimento, ma è il quotidiano lavoro di costruzione di un progetto, il costante tener presente l'obiettivo, il non perdere di vista - mai - cosa ci ha mosso! Questa la speranza! Costruire, sempre e comunque - parlando sia che ti ascoltino sia che non ti ascoltino - nel senso che ti è indicato dalla tua partenza, e senza la pretesa di vedere la fine! Questa è la speranza? Per me questo è il senso interpretativo della mia esistenza!

domenica 27 giugno 2010

Me stessa nel diario

Mi sei davvero amico, caro Diario, e spesso mi parli eloquentemente anche attravreso Darianna. Voglio effondere in te quello che sono, per evitare di vedermi imbruttita ed incattivita dagli altri. Per ora passo momenti trememdi nel notare con amarezza quanti cosiddetti amici si siano rivelati... (forse esagero) nemici; il loro motivo? .
Ti ho già detto, caro diario, che il mio dolore è mortale. E tale resta. Perché una persona a me carissima è considerata e trattata da matta, e io debbo accettare tale valutazione, o almeno tapparmi la bocca. Fino a quando non impareremo a credere nella guaribilità delle persone? e ci ripromettiamo premure e toppe a modo nostro, per "guarirle", senza tenere in conto quello che il soggetto vuole e sa fare? Invece nessuno gli crede e lo aiuta come vorrebbe lui. Mi mordo i freni: come capire che credere nella non-guarbilità da parte di chi lo circonda è come ucciderlo?
Non sarò mai creduta, ma io ci credo, lo voglio............ Non mi rassegnerò mai.
Mmeno male che tu, mio amico diario, mi fai parlare, perché gli altri mi mettono a tacrere e CON SARCASMO... Vita amara!

lunedì 21 giugno 2010

La sofferenza di d-o?

Cara Ausilia
Ieri avevo pensato di scrivere qualcosa di più vicino al discorso teologico, in relazione all'ampia parte del tuo messaggio, e questo mi capita ogni volta in cui mi trovo di fronte ad un "qualcosa" che mi "provoca" in relazione alla mia fede. Non voglio e non posso discutere, interloquire su quello che è la fede di una persona, per quanto mi sia vicina e per quanto io abbia nei suoi confronti un profondo affetto e stima. La fede è sempre un qualcosa di assolutamente soggettivo, ed in quanto tale può essere espressa, testimoniata e comunicata, ma non trasmessa, non discussa, non posta sullo stesso piano di una teorizzazione o di un pensiero.
La sofferenza di d-o non la conosco, nella stessa identica maniera come non posso pensare di conoscere la tua sofferenza. Posso conoscere la mia di sofferenza, ma il fatto che tu parli di dignità negata non mi autorizza a pensare che io possa conoscere la tua.
Nella mia esperienza posso dire di aver imparato a scindere la sofferenza dalla rabbia che mi genera ogni volta che mi trovo di fronte ad una ingiustizia, ad un soppruso, ad un inganno.
Forse la mia necessità di decodificare, di chiarificare a me stessa quello che provo, mi porta a scindere il mio senso di giustizia (che mi apre all'abisso della mia impotenza) e la sofferenza che si genera in me quando sono spettatrice di una esistenza che si annulla. Forse il mio è un sofismo, o più provabilmente un modo per difendermi. Non so dire! Ciò che più o meno conosco è la mia sofferenza, posso solo per simpatia partecipare alla sofferenza altrui, ma nella sofferenza la dimensione che - forse - è costante per ogni persona, è la solitudine.
L'utopia (consentimi questo termine) del messaggio cristiano è che tale solitudine si possa in un qualche modo rompere, appunto nell'essere vicino a chi è nella solitudine, senza invaderla, senza abusarla.
Non so quale sia la sofferenza di d-o! Spero e, nel contempo, credo che il mio d-o sia veramente capace di essermi vicino, di darmi - appunto - quella unica vera con-solazione che riesce a darmi un po' di pace. Si, pace, ma dove io preferisco sempre dire "giustizia".
Non vogio invadere la tua sofferenza, se ho fatto questo ti chiedo scusa, ma nella mia impotenza ed incapacità, voglio solo esserti vicina.
Un abbraccio
Darianna

sabato 19 giugno 2010

Ferite

... e insulti. Grazie, non c'è di che.
E dovrei mettere punto con il "non ti curar di lor, ma passa e guarda".
Ma se il cuore langue di dolore, non per le ferite ricevute nel proprio sé, bensì per le ferite che una persona riporta nella dimensione assoluta del suo essere persona, fino a diventare fantoccio creato dagli altri, ... e tu che te ne accorgi, che vorresti dargli una mano, lenire qualche piaga..... sei costretta ad assistere impotente?
Soffro, questo è l'unica cosa davvero mia: SOFFRIRE. Le ingiurie che mi rivolgete, gente per bene, non mi toccano, anzi mi fanno ... quasi ... sorridere, tanta è la vostra scempiaggine. La sofferenza è invece sostanza del mio essere-in-situazione-d'impotenza.
Come deve essere terribile la sofferenza di Dio se assomiglia alla nostra del tipo descritto! Terribile. E intanto Lui non la ripudia, come io non mi nego la mia, rassegnandomi alla mia impotenza.
Capisco questo volersi assomigliare nel diritto a soffrire per l'altro vilipeso nella sua dignità di persona libera. Non capisco come mai Lui resista a soffrire, pur potendo vincere l'impotenza e sollevare l'altro. Ci deve essere un qualcosa di più valido della stessa sofferenza per il vilipendio dell'altro.
Ad occhi chiusi mi fido nel credere che la prova dell'impotenza abbia un valore ancora più eccelso del diritto sacrosanto di ciascuno ad essere rispettato nella sua dignità di persona libera. Avevano ragione i sapienti di tempi lontani nel dire che solo il dolore genera cose incredibilmente superiori ad ogni bene. E, mentre riconosco che le cose stanno così - historia docet - il cuore che sanguina in maniera immateriale ma irresistibilmente feroce, si mescola a quello infinito di Cristo.

domenica 13 giugno 2010

Ferite e riconciliazione?

A quest'ora cosa posso trovarmi a pensare?
La riflessione di Laura Denu, che si trova a questo indirizzo:
http://lauradenu-lauradenu.blogspot.com/2010/06/le-ferite-e-la-riconciliazione.html
mi ha posto di fronte ad una questione che, tutto sommato, avevo pensato di aver già sufficientemente affrontato. Il problema della riconciliazione lo avevo già valutato dal punto di vista teologico e dal punto di vista personale, avevo già tentato alcune correlazioni, ma il testo di Laura mi ha richiamata con forza a ripensare e, quindi, a rivedere. Questo è il bello del dialogo che a molti sfugge, il bello del poter rimettere in discussione con noi stesse le questioni che riteniamo già assodate.
Riconciliarsi con chi? Con cosa? Ecco cosa pone in una prospettiva nuova Laura, ovvero il riconciliarsi nasce e si produce dal fatto che si hanno ferite, ferite che pretendono di essere rimarginate, che pretendono di non essere più invasive nella nostra esistenza.
Possiamo aver accertato ed, in un qualche modo, anche accantonato queste nostre ferite, nascondendole o non considerandole più perché si è affrontato in modo chiaro ed onesto il "chi" le ha prodotte! Forse abbiamo anche ottenuto di non dover dare più tanto peso a quanto ha prodotto quelle ferite, ma nei fatti non abbiamo curato, non abbiamo rimarginato, non abbiamo sanato le nostre ferite, le quali ad ogni occasione risputano fuori. Sono quei fantasmi che ci inseguono e che si palesano di fronte a noi senza preavviso, senza una logica motivazione, che si riaprono improvvisamente riportando alla superficie gli stessi dolori, le stesse sensazioni.
Si è pensato di aver superato la questione, di aver risolto, di aver dato una motivazione sufficiente per poter passare oltre, ma così non è! Nei fatti, per quanto ci si possiamo esseci date motivazioni, spiegazioni e quant'altro, la ferita è rimasta aperta, e questo significa molto semplicemente che non c'è stata riconciliazione. Si, perché ciò che è fondamentale, è comprendere che la riconciliazione non è con "altri", ma è con noi stess*!
Chi mi ha ferita, chi mi ha oltraggiata, chi ha devastato la mia esistenza, chi mi ha sempre impedito di essere, per quanto sia stata la persona o le persone che mi hanno provocato la ferita, non sono la ferita. Ma ciò che a me fa male, fa male oggi, è la ferita che è rimasta aperta, che è producente dolore, ed è quella che pretende di essere curata, guarita, rimarginata.
E penso a me, penso a quante ferite ho rimarginato, quanta riconciliazione ho operato su me stessa. Penso che il mio dolore, la mia paura, la mia profonda sensazione di fallimento, il mio sentirmi un "re mida al contrario", sia proprio indice che nella realtà ho ancora ferite profonde che non ho curato, che ho voluto, tentato di dimenticare.
Una giornalista con inistenza mi chiedeva se io avevo perdonato chi mi aveva devastato l'esistenza. Cosa avevo da perdonargli? La mia esistenza era stata messa nelle mani di penne senza scrupoli, di personaggi indecenti che per soddisfare i loro pruriti o quelli dei loro presunti lettori né avevano fatto scempio. Chi mi aveva ferita, chi mi aveva oltraggiata non era certo quell'individuo che, malato, aveva fatto le sue nefandezze! No! La ferita mi era stata inferta da altri soggetti, mi era stata inferta dalle istituzioni dello Stato, quelle istituzioni che io avevo onorato e servito nella mia dimensione di cittadina libera e tesa ad essere consapevole. Alcune istituzioni dello Stato, le strutture di una realtà ecclesiastica, la becera attività di chi scrive su giornali e fa televisione senza il minimo di professionalità e di deontologia professionale, questi mi avevano ferito ed oltraggiato!
Loro sono la causa del mio dolore, della mia paura, della mia profonda sensazione di fallimento, del il mio sentirmi un "re mida al contrario"! Ma loro sono solo la causa, non la ferita! Ed io devo guardare bene in faccia la mia ferita e smetterla di essere distratta da chi me l'ha inferta. Loro tutti, comunque sia, servi di qualcuno e qualcosa!
La mia ferita che c'è, ed è quella con la quale io devo fare i conti veramente! Ma io con questa ferita mi devo "riconciliare", non devo cadere nella trappola della "giustificazione", poiché non sono giustificabile né io né loro!
Si, io non sono giustificabile, poiché ho creduto - e credo - che un mondo migliore sia possibile, e ho creduto - e credo - che ci sia il diritto per ogni persona di avere una possibilità reale. Dovrei forse giustificare questo che credo? No! Non ci penso proprio a dover trovare giustificazioni a ciò che credo, per quanto queste mi abbiano esposta e continuino ad espormi. Ed ogni volta che mi espongo e mi rendo bersaglio, nella mia più piena consapevolezza di quanto sto facendo, diventerebbe assolutamente ridicolo che io trovassi pure l'onta, verso le ferite che mi procuro, di dare delle giustificazioni. Ed è proprio per questo che io credo che, contemporaneamente, non posso trovare alcuna giustificazione a quelle persone, a nessuna di quelle persone che hanno rappresentato le istituzioni dello Stato, che hanno rappresentato i media, che hanno rappresentato la dimensione ecclesiale!
Questa mia ferita è troppo seria per me, perché io la insulti con giustificazioni! Ma ogni mia ferita è seria, e nessuna di queste io le ho insultate con giustificazioni, per questo si sono rimarginate, per questo sono divenute fregi di cui onorarmi.
Ma la ferita che ho ancora aperta mi da dolore, e per quanto io sapppia e conosca profondamente quale grandezza essa produca, quale senso profondo essa ponga di fronte alla storia, mi da ancora dolore, perché la mia ferita ha dei nomi precisi, ed è per questo che sempre riappare e non guarisce. La mia ferita si chiama abbandono, si chiama slealtà, si chiama pregiudizio, si chama meschinità, si chiama opportunismo.
Potrei dire che questa è la "legione" che mi tormenta, quel tormento che ancora attende che qualcuno mi liberi!

martedì 8 giugno 2010

...mie far le tue sofferenze

Col Nulla un giorno inutil m’apparve il confronto
Qual ebbrezza bearmi d’immenso
senza meta nuotarvi sperduta. Eppur non potevo
baciarti perché da me Altro restavi

Altro giorno accostata a Tue piaghe
dal dolore del mondo ti vidi ferito
Ormai t’abbracciavo e baciavo da amante
null’altro volendo che mie far le tue
sofferenze

lunedì 7 giugno 2010

Ostinazione o perseveranza?

Ho un progetto! Forse tutte le persone hanno un progetto e per questo e su questo spendono la loro esistenza. Se è così, io sono una delle tante che, appunto, ha un progetto che persegue da decenni, nel quale ha investito tutta la sua esistenza, sotto ogni aspetto.
Se io faccio un'analisi obiettiva della mia esistenza in relazione a questo progetto, quindi a ciò che ha sempre dato senso, significato, spinta, pensiero, posso solo constatare come questa sia stata un effettivo susseguirsi di insuccessi.
Sono stata sconfitta sul piano ecclesiale, sconfitta sul piano culturale, sconfitta sul piano sociale ed, infine, sconfitta sul piano politico.
Questa volta mi trovo di fronte alla possibile sconfitta sul piano economico. Mi chiedo se questa mia sia ostinazione o perseveranza.
Ovviamente ogni valutazione deve essere fatta a partire da qual è l'oggetto del progetto.
Nella mia "follia" ho sempre ritenuto che per quanto sia impossibile vivere in una società giusta, è quanto meno possibile operare e lavorare perché la società sia meno ingiusta, quanto meno si possa costruire degli spazi di giustizia e di equità.
Nel pieno della mia adolescenza, in un qualche modo, attraverso la predicazione di mio padre, compresi un elemento che è divenuto normativo nella mia esistenza. D-o ha una diversa e profonda attenzione nei riguardi di chi è nella totale marginalità. Nel corso dei miei studi venni folgorata dal cap. 4 del profeta Osea, dove esprime la condanna verso profeti e sacerdoti perché negano la conoscenza al popolo ed il popolo muore per mancanza di conoscenza, tanto che tutto il loro culto e la loro "pietà" è come la nebbia che si dirada al primo sole. Altro fatto determinante fu la comprensione che tutta la "torah" ha come nodo fondamentale il fatto che d-o è garante del diritto degli ultimi.
Da qui parte l'idea che ogni possibile sviluppo ed ogni possile "emancipazione" si può verificare solo partendo dagli ultimi. La mia profonda convinzione è che solo nel momento in cui noi si attua la logica che gli ultimi hanno diritto di serdersi hai primi posti - se non universalmente, almeno in alcuni spazi sociali - potrà veramente esserci una reale emancipazione.
Così l'idea che soggiace al progetto è quella di strutturare un sistema che abbia come obiettivo e fuoco le persone "ultime".
Ciò che ho sperimentato è che le prime persone che vanno contro a questo progetto e che lo contrastano sono proprio le persone socialmente "ultime".
Ora mi chiedo, di fronte alla possibilità dell'ennesima ed ultima sconfitta, se la mia è stata ostinazione o perseveranza, ben consapevole che io ritengo di aver perseverato nel perseguire questo progetto.
Molti sono i pensieri che mi seguono, che sostanziano la mia intera esistenza in relazione al progetto. Forte è il senso di chi ha compreso la necessità di essere "vuote" per poterci lavorare, per poter effettivamente portare avanti una cosa del genere. Non si può avere propri profumi se si parte dagli ultimi, non si può avere proprie verità. La condizione necessaria è l'essere svuotate completamente di sé, per esserci nella consapevolezza piena di sé.
Non che questo essere svutate dia una qualche garanzia di risultato positivo per il progetto stesso, ma piuttosto perchè questo essere svuotate implica e porta a comprendere che non diventa più normativa o fondamentale che un risultato ci sia. Il senso non sta più nell'ottenere o raggiungere qualcosa, ma semplicemente nell'esserci in quel qualcosa che ha il suo senso semplicemente in sé, nel suo esprimersi nella storia, nel suo determinare la quotidianità di qualcuno, nel divenire speranza nella disperazione.
Essere vuota implica non legare più se stesse a qualcosa, non essere più nella logica del poter dare e nel poter ricevere. Niente posso dare, niente posso ricevere. Come ho detto la mia "anfora" è rotta, ed in quanto tale non può più dare né ricevere.

sabato 5 giugno 2010

Il desiderio e la solitudine

Sogni di comunicazione o insufficienza di me?
Rifiuto l'amarezza che segue a quei sogni e inorridisco di fronte alla soddisfazione di un misero conforto.
E allora butto via sogni e contentini.
*
Ma non mi rassegno al cheto vivere.
Voglio restare non paga, ansiosa, incapace di reggere l'esuberanza che mi pervade.
Col mio desiderio insoddisfatto, continuo a desiderare. E desiderare è più che sognare o appagarmi.
*
Oh sovrabbondanza del mio desiderio!

martedì 1 giugno 2010

Attimi

Attimi. Non sempre li vivo come miei, da alcuni, anzi, "sono vissuta", meglio, inghiottita. Vorrei poter descriverne alcuni, ma questa volta mi limito ad uno soltanto.
Ad un tratto, dopo incubi su incubi in cui non vedevo via di uscita, un immediato senso di serenità. Niente di sensazionale, niente di illuminativo; solo che si snodavano vari intrecci e appariva un unico filo, fatto di occasioni, tutte risolte (anche quelle in pendenza).
Non ho avuto alcuna voglia di chiedermi che cosa desse unitarietà a tutti gli attimi della mia vita, per non mettere in gioco la mia razionalità, le mie deduzioni, i miei sentimenti. Volevo solo accettare quell'attimo, che racchiudeva il segreto della serenità, lontana da sensi di sconfitta e vittoria, dolore e gioia, aspatia e desiderio, slancio e depressione.

domenica 30 maggio 2010

Eppure ...

Ed allora, cara Ausilia, faccio mio il tuo "eppure", proprio perché, nonostante tutto e nonostante ogni tipo di valutazione o di giudizio che può essere espresso, per quanto per strade diverse e con sensi diversi, abbiamo scoperto la "ricchezza" del vuoto nel quale siamo, compreso anche quello stato costante di distacco-partecipato alla quotidianità che ci circonda. Mi viene in mente Pirandello con "uno, nessuno e centomila", o con il suo "Enrico IV".
Eppure ... non siamo né l'uno né l'altro, tanto meno un soggetto in cerca d'autore!
Amo descrivere la mia realtà come quella di chi si trova nella terra di nessuno, in quella terra dove si osservano i confini altrui, e non mi nascondo che questi rappresentano i miei confini, segnano il perimetro della terra nella quale sono e che è solo teoricamente non recintata, solo teoricamente terra di nessuno. Quei confini, per quanto non mi appartengano, ci sono! Non mi appartengono più, ho fatto il salto di uscire da tutto questo, camminare dove ancora non è stato tracciato un sentiero, dove ancora non c'è una chiara figura che consente una esposizione, che ancora ricerca il modo di comunicare. Ma i confini delle parole, i confini dei conceti, i confini dei "saputi" e dei "conosciuti" ci sono e fanno comunque parte della mia realtà di persona.
Sono me stessa, si! Nella ingarbugliata matassa di tutto quello che mi rappresenta, privata di una possibile ed unica verità, anche di me stessa, provo a dire come lo smarrimento sia il vero luogo della propria dimensione, senza la necessità di coerenza o di conseguenzialità.
Eccomi qui, per ciò che sono. Con la voglia di essere amata per ciò che sono, avere qualcuno con cui continuare il cammino della scoperta di sé, ma anche tutto sommato serena.
Ho accettato che nulla dipende da me, se non l'intenzione! Ho accettato che a me spetta solo il cercare, nel limite delle mie capacità, di governare ciò che mi viene posto di fronte, e spesso mi chiedo se abbia un senso questo governare, o se pure questo è un tentare di dare corpo.
Ti abbraccio, virtualmente!
Darianna

Il vuoto insidiato

Cara Darianna, mi ritrovo nella tua strana giornata in cui incontri "persone che vivono la loro esistenza nella quotidianità di una lotta costante per andare avanti, per vivere" e persone che vivono "la dimensione astratta ed impersonale di chi tratta la realtà, le esistenze, solo a partire da uno schema preconfezionato e astratto".
Certamente ci sono altre categorie di persone che incontriamo tutti, e non in "una strana giornata", ma ad ogni pié sospinto. Anch'io esternamente appartengo, mio malgrado, a qualcuna di quelle da te nominate, trovandomi impigliata in una qualche parte da recitare, ora per questo ora per quello.
Ma quale nostalgia di stringermi in abbraccio a qualcuno/a con cui essere me stessa, solo me stessa!
Ed ecco, puntuale, il mio "eppure".
EPPURE mi assale il dubbio che nemmeno mi posso stringere a me stessa, perché mi sfugge sempre qualcosa di me (e nel dirlo credo di essere più sincera di coloro che si ritengono signore del proprio io, libere di scegliere, con possibiltà sempre nuove per reinventarsi; e so che molti reputano tale proprio me....). Mi consola Pascal col paragone tra l'io pensante-amante e la canna sbattuta dal vento. Mi consola essere cosciente delle mie debolezze VERE. Almeno posso accostarmi con sussiego ma senza ambage al mistero del me-stessa, fatto di VUOTO.
Lascio questa parola 'vuoto' alle interpretazioni di chi si prendesse una simile stupida briga. Da parte mia non aggiungo una parola di FEDE: non perché non ce l'abbia (anzi è l'unica a definirmi), ma perchè essa non riempie quel vuoto; semmai lo dilata sempre più.........).
E vivrei felice e contenta nello spazio liberato da ogni invadenza, se non mi tormentasse la decadenza corporea, che lo insidia corrodendo i margini i quali lo delimitano e in un certo qual modo lo proteggono. Accipicchia!

martedì 25 maggio 2010

Giornata strana

Oggi è stata una giornata strana sotto tutti gli aspetti. La sua preparazione è stata un crescendo di tensione in prospettiva ad un momento pubblico nel quale avrei dovuto parlare ad un pubblico sconosciuto ed attraverso un telefono. Non sono abituata a parlare in questo modo, ho necessità di avere di fronte persone quando parlo. Ma la situazione era questa, quando si parla ad una radio e lo si fa per telefono, ci si deve impostare, entrare in un modo di comunicazione che - sebbene non mi sia consono - dovevo adottare per poter portare avanti il progetto al quale sto lavorando da troppo tempo.
Ho ascoltato questa radio per due giorni, per capire come si muove, come imposta le cose, qual è il suo "livello" di comunicazione! Il genere preferito è simile alla "rissa" verbale! Non è il mio genere, per quanto sia piuttosto veemente quando parlo ed espongo qualcosa. Dovevo farlo, l'ho fatto adottando linguaggio e modalità di questa radio, ricevendo una risposta inaspettata dagli ascoltatori (in meno di 40 minuti, sono arrivate 450 mail). Oggi pomeriggio in banca, convocati da responsabili di zona per ascoltare le loro metodiche e per dire cosa stiamo costruendo.
Tutto si fonda sull'idea che si deve ripartire dal basso, si deve riprendere il filo delle cose a partire dalle situazioni più piccole. Nel campo economico si sostiene la necessità di partire dalle micro imprese, nel campo culturale di ripartire dalle basi fondamentali della conoscenza della storia e del vissuto.
Due ambiti completamente diversi: il primo culturalmente inqualificabile, ma rappresentantivo delle persone che vivono in una situazione culturalmente marginale; dall'altra parte persone dalle quali ci si aspetta almeno una certa cultura, una impostazione quanto meno più analitica.
Nella prima situazione di assoluta assenza di possibilità argomentative e di una discussione serena, l'ascolto e la volontà di interazione c'è stata; dall'altra ... un muro di gomma!
Nella mattinata ho "incontrato" persone che vivono la loro esistenza nella quotidianità di una lotta costante per andare avanti, per vivere; una costante e disordinata rivendicazione al loro diritto di vivere dignitosamente; nel pomeriggio solo la dimensione astratta ed impersonale di chi tratta la realtà, le esistenze, solo a partire da uno schema preconfezionato e astratto.
Le sensazioni sono tante, difficile per me poterle descrivere pienamente, ma mi è venuto chiaro quale fosse veramente il ruolo dei giudici biblici.
E mi chiedo con quale diritto e sulla base di cosa io mi debba fare portavoce di chi non ha voce, senza - per altro - che costoro me lo abbiano chiesto.
Ho la presunzione di avere parole per chi non le ha! Ho la responsabilità di dirle! Non mi consola il fatto di doverle dire sia che ascoltino che non ascoltino; mi è duro seminare ovunque! Mi chiedo con quale diritto e con quale mandato!
Eppure ... eccoci a parlare a chi non ha orecchie, e sicuramente per chi non ha parole.
Un abbraccione

Le due vite

"Vivere la vita pienamente": lo sento ripetere da più parti. Ma se vado ad apprendere il senso dagli altri, trovo delusioni, e solo delusioni. Non ne trovo soltanto nella realtà simbolica che si esprime nelle produzioni artistiche, dove il mondo singolare dell'artista combacia con quello universale. Preciso: non sbiadisce e non si appiattisce su un'universalità astratta, ma diventa rivelativo del senso profondo della vita, che è uno e inesauribilmente molteplice. Una rosa concreta è destinata ad appassire, una rosa assunta nella realtà simbolica acquista una valenza di infinito senza cessare di essere finita: il finito è compiutezza se attraversato dall'infinitezza del sentire pensare creare umano.
Una rumena, facendo le pulizie, mi professava la sua non-intelligenza. Alle mie proteste non si convinceva: "no, io non sono intelligente, so solo quello che debbo fare". Dite voi se la sua convinzione non è più intelligente della mia pretesa di essere capita da chi di discorsi veri non vogliono sentir parlare.

sabato 15 maggio 2010

Accidenti alle utopie!

Siamo imbevuti di utopie fino al collo, nella nostra mentalità, anche la più quotidiana e più banale. In politica le espongono nella maniera più indecorosa, per dire cosa si dovrebbe dire e fare; si capisce, riferendosi agli altri, perché se i soggetti parlassero di se stessi, magari se la caverebbero ad imbrogliare con la loro verbosità, ma non ad operare. E quel che è peggio noialtri che stiamo a sentirli ci facciamo loro complici in bugie utopiche, sia facendoci loro seguaci sia criticandoli.
La politica è solo n esempio. In campo etico chi non ha visto e sentito pronunciare paradigmi di perfezione umana in opposizione alla rovina di cui si è testimoni oculari? quasi che si fosse realizzato qualche volta nella storia un mondo perfetto o vicino alla perfezione, oppure quasi che si attendesse il suo arrivo in un futuro... Ma quale? Se guardiamo alla storia, le cosiddette età auree, esaminate bene, nascondono al loro interno il seme del tracollo.
Eppure.
Il mio 'eppure' ritorna puntuale.
Sì, non esiste solo il bianco e il nero; si può sempre fare meglio o almeno meno male. Ma per favore, chi parla si faccia l'esame di coscienza per vedere se l'ha fatto lui, qualche volta, il 'meno peggio'
Ausilia

mercoledì 12 maggio 2010

Mi sono chiesta

Non è il mio tempo, quello dell'immagine, tanto meno quello del ricordo. L'unica cosa che si è impadronita di me è la visione. Evito di cadere nel gioco pericoloso del ricordo!
Mi hanno costretta a vivere nella logica di ciò che resta, dove tutto ha uno specifico prezzo che deve essere corrisposto o pagato. La gratuicità è qualcosa che non può trovare spazio nella mia quotidianità. Se io vi cedo, la pago caramente! Nulla è concesso alla possibilità di un sogno, di una immagine, di un pensare; il fatto impera e si impone, deformando gli individui che vi sono coinvolti in maschere, così che tu vedi persone di cui non scorgi e non riesci a scorgere chi vi si nasconde dietro. Mi chiedo se nei fatti qualcuno vi si nasconda dietro, oppure quelle maschere non servono ad altro che a nascondere la nullità del fatto, di ciò che concretamente si può portare, che resiste alla pioggia, al vento ed al mare!
Mi sono chiesta e mi chiedo cosa sia il vero e cosa sia il falso. Me lo sono chiesta su me stessa, interrogandomi in modo ossessivo, cercando di comprendere chi di fronte a me fosse "vero" o fosse "falso". Mi sono illusa di pensare che solo l'essere vera io stessa potesse costringere altri ad essere veri; ma io sono vera? Io sono falsa? Chi è di fronte a me si trova di fronte ad una maschera che rappresenta qualcuno che ora è così, ora è diverso!
Mi sono chiesta se la questione della verità e della falsità non fossero, nei fatti, solo concetti conseguenti ad un presuppoto ideologico di coerenza, di continuità, e non invece inerenti al quotidiano che si esprime e che - forse - non merita di essere sottoposto ad una valutazione rigida quale può essere la "verità" o la "falsità".
E se fosse che la verità fosse solo lo scorrere del tempo e gli eventi che mutano? E se la verità fosse un divenire invece che un accadimento? Cosa cambierebbe nella nostra comprensione del mondo e nella percezione che noi abbiamo del contesto nel quale viviamo?
Non ho mai costruito castelli di sabbia sulla riva del mare, proprio perché non ho mai sopportato l'idea che il mare li distruggesse; ho scavato buche nella sabbia, nella sciocca speranza che potessero inghiottire il mare! Il mare ha ricoperto le mie buche, come non fossero mai state!
Le buche che ho scavato erano "vere" o erano "false"? Era vera o falsa la mia pretesa di volere che il mare fosse inghiottito da quelle buce? Non so rispondere a queste domande, ma ho consapevolezza che le buche le ho scavate e che ho sempre desiderato che il mare fosse da queste inghiottito.
Forse perché mai ho pensato che avrei potuto camminare sul mare, e forse perché la tempesta mi affascina oltre ogni cosa!
Non mi interrogo più sulla "deità", tanto meno ritengo che il concetto stesso di "umanità" possa più essere adeguato. La biologia non è sufficiente per farmi sentire appartenente ad un continuo, ad un comune denominatore!
Fuori di metafora, vedo i progetti di molti individui venire annientati da un clic di un mouse; vedo la fatica e lo sforzo quotidiano di individui che hanno dato tutto di loro stessi per poter costruire qualcosa per i loro figli e figlie, annientato dal cinismo disinteressato e distaccato di personaggi dietro a scrivanie squallide; personaggi resi sicuri di sé dalla loro posizione e dalla loro sicurezza di avere garantito il cibo per se e per chi gli è vicino!
Ogni castello che viene dissolto è lacrime e sangue, perché non può essere gratuito, perché nulla ti è permesso nella grauicità! Neanche la grazia è così gratuita, poiché un caro prezzo è stato pagato! Quanto conosce il prezzo della grazia chi ne ha avuto occasione di incontrarla, di conoscerla e di viverla.
Oggi scrivevo a te, cara Ausilia, di qual è il mondo con il quale mi trovo a confrontarmi, ma il mondo che mi circonda è lo sguardo spento di un uomo che ha perso la speranza fino al punto di non riuscire neanche più a cogliere l'opportunità!
Non ho immagini ne posso concedermi al ricordo; ho visione! C'è una massa che grida solo "ora devo salvarmi!" e null'altro conta!
Crolla la borsa! Qualcuno gode nel vedere il successo della propria operazione, si perde nel contare quante volte e quante si moltiplicherà quella disperazione e quel prezzo che altri hanno pagato, pagano e pagheranno! Ed il loro gusto non è il guadagno, del quale non hanno necessità, ma è il cinico giusto di aver vinto.
La menzogna? Si, forse è proprio così! Tutto si regge sulla menzonga! Questa mattina io non mi sarei alzata se non avessi mentito a me stessa che qualcosa potevo ancora fare! E domani mi dovrò mentire ancora, ed ancora per andare avanti! Dovrò pensare ipocritamente al sorriso di un bambino, per non vedere il pianto di tanti e troppi!
Tutto si regge sulla menzogna, e spesso si deve compiere una vera e propria opera di persuasione su noi stesse per poter far si che quella menzogna ci appia vera anche per un solo momento. Ma è mentire il darsi fiato e forza di vivere un altro giorno, sapendo bene che se non ci si mentisse sarebbe il lasciarsi morire?
Domani sarò più positiva, la sera mi riesce meno facile!
Un abbraccio
Darianna

martedì 11 maggio 2010

Gratuità

Una poesia dell'amica Adriana

I bambini fanno castelli di sabbia
non si dispiacciono di abbandonarli
il mare prima o poi arriva
o il vento o la pioggia,
i castelli verranno distrutti
ma rimane un ricordo
una piccola piuma sulla torre più alta
segno di una conquista, di un successo gratuito.

Essere bambina per costruire castelli
senza il rimpianto di vederli cadere,
lasciare che il mare spiani la sabbia
faticosamente raccolta per raggiungere il cielo
conservare soltanto nel cuore
l’immagine di una piccola piuma
che solo io ho veduto.

Rosignano, 25/4/2010

Menzogne e verità dell'istante

Ho l'impressione che tutto si regga sulla menzogna: si evidenza nel comune modo di parlare, ma in realtà è presente ovunque, perché è iscritta nella transitorietà di tutto, e abita soprattutto dentro noi stessi, nel nostro modo di pensare e di esserci. Pessimismo? No, basta riflettere un po'.
Vogliamo credere all'istante come realtà, mentre nulla c'è di più transitorio (e quindi evanescente) di esso quando pretendiamo di trovare la SUA verità. Cosa c'è di vero-reale in un fiore nell'attimo della sua più alta bellezza, se non che finirà?
Eppure.
Se pensassimo che la verità non è nell'istante in sé e in ciò che esso ci presenta, le cose cambierebbero. La verità tocca l'istante, ma lo trascende. E, mentre lo tocca, lo rende vero, e gli conferisce realtà oltre le apparenze (da lì l'arte). Basta cogliere la verità-NELL'istante non la verità-DELL'istante, e tutto "torna".
Ausilia

sabato 8 maggio 2010

Immediatezze

Le immediatezze prendono sempre più spazio nella mia vita. In un certo senso me ne meraviglio perché sono molto portata alla riflessione lunga e laboriosa.
Eppure sono tante le piccole cose della giornata che, belle o brutte, interessanti o inutili, non richiedono la mia riflessione, bensi la mia e-staticità.
Ieri guardavo una badante trentenne accanto ad un'anziana signora; entrambe in atteggiamento statico, marmoreo, glaciale. L'una e l'altra, due pietre isolate in un deserto. Però nella giovane la durezza delle apparenze non riusciva a nascondere dolore da sradicamento e angoscia infinita.
Ho provato a rivolgerle con simpatia qualche domanda.
In un breve scorcio di tempo il suo viso si è illuminato di un sorriso che mi ha dato felicità. Mi ha dato l'aire per buttare via la mia solitudine tra gli oggetti di lusso inservibili.

domenica 2 maggio 2010

La speranza

Carissima Ausilia, rispondo con immediatezza a questo tuo scritto. Nei fatti non rispondo, non ho nulla da rispondere, ma solo qualcosa di cui prendere atto insieme a tutte le altre persone che ti (ci) leggono.
Sono una credente, amo definirmi come "eterodossa", e sono fuori dalle realtà ecclesiali perché collocata fuori, non perché abbia io deciso di uscire. Di questo ringrazio il mio dio, poiché mi ha fatto passare dalla "terra di qualcuno" alla "terra di nessuno", facendomi perdere - mio malgrado e con la sofferenza che né consegue - ogni senso di appartenenza. Non appartengo ad alcuno e nessuno mi appartiene. Posso essere finalmente "laica", perché deprivata dalla necessità di dover coordinare la mia fede con il dogma, fuori dalla necessità di avere un assoluto di riferimento, per potermi calare - finalmente - nella contestualità, nella relatività del quotidiano e del nostro percorrerlo in così tanti e svariati modi.
Ma sono credente, e per tanto il tutto non può prescindere dalla fede, la quale si pone di fronte a me come semplice e non richiesto dono! C'è e ci devo fare i conti come con chi non ti chiede mai conto!
La narrazione del se è narrazione della storia, del pensiero che si fa "fatto", di una parola che si fa "carne". Il primo approccio serio che ebbi con il pensiero femminista mi aprì una visione diversa della esistenza, e mi mise di fronte la mia incolmabile mancanza. C'è qualcosa che io non potrò mai avere, ma solo caparbiamente dare. La trasmissione della memoria della vita, quella dei gesti, quella che di madre in figlia si passa, senza che sia scritta o documentata, ma che è iscritta nella memoria, quella non l'avrò; non l'avrò come qualcosa che sia stata passata a me, ma io la passerò, come nuova memoria di quel mondo femminile che ancora deve fare la propria storia, deve fare la propria memoria e condividerla.
Ho tante figlie e qualche figlio, ed a tutt* cerco di passare questa memoria, questa cosa che non si può scrivere, non si può dire! Non perché sia proibito, ma perché l'esperienza del quotidiano, la percezione della storia, il senso del se e l'amore verso il proprio corpo, il senso della cura, non sono cose che possono essere scritte nel "manuale" della vita, ma solo trasmesse nel quotidiano parlare e seguire. Pur non avendo mai partorito sento quella profonda insofferenza e sofferenza per il dolore che oggi devono subire le mie figlie ed i miei figli, nella mia rabbia sorda di una ostinata lotta per aprire prospettive e per ridare speranza. Si, cara amica mia, la speranza a chi si è visto rapinare la speranza dall'idiozia delle "appartenenze peculiari" e dei loro conenuti e di quant'altro si pone in una sudditanza di pensiero in qualsiasi forma essa si esprime.
Combatto, ma non contro "carne e sangue", ma contro principati e potestà, ed è una presunzione che richiama il senso proprio di una vocazione che non si spenge perché donata, perché data.
Non credo che ci sia una possibilità di nuovi pensieri, quanto piuttosto la possibilità di nuove strade e nuovi percorsi, se poi di qualcosa di nuovo si possa parlare. Nuovo per noi? Si, per noi nuovo! La speranza, quindi, perché questo è il nuovo che si pone di fronte a noi oggi, per l'oggi, per quello che siamo!
Vivo di speranza, tant'è che è il mio pane questa speranza, è il lavoro che ogni giorno svolgo, è il nome pieno del progetto che porto avanti da tempo. Un progetto economico, sociale, politico ... ma manca della cultura, perché una cultura della speranza non c'è! Oggi non c'è! Oggi ci si trova di fronte solo ad una cultura della disperazione e del nascondimento! Il bello lo hanno ridotto ad una sciocca icona fantasiosa, colorata con pastelli irreali! Dove è il bello? Dove lo hanno nascosto? Perché ci hanno tolto il bello del quotidiano vivere e di quella piccola quotidiana allegrezza di aver potuto parlare, sorridere, confrontarsi, arrabbiarsi, gustare, vedere, sentire? Perché tutto è così coperto di mille amarezze?
Lotto, è l'unica cosa che so fare! Lotto perché non ho altre possibilità! Lotto perché so che, comunque vada, vinco! Lotto e sono nella lotta, spesso nella consapevolezza di una schiacciante solitudine, spesso nella consapevolezza della totale incomprensione! La laicità ... chimera? Prassi? Obiettivo? Quotidiano soggettivo che si snocciola in ogni scelta che non è pregiudiziale e condizionata da "verità" prefabbricate e preconcette? Laicità di un pensiero che apre e mai chiude, tutto ascolta e tutto valuta; ma poi anche sceglie!
E si, perché il pensiero poi sceglie per potersi formulare, sceglie un campo, sceglie un punto di fuoco e lo persegue, ed in questo prende le distanze dal ragionamento che, forse, può anche costituirlo ma non strutturarlo.
Sai quali sono i pregiudizzi più duri da superare? Sono i propri nei confronti di noi stesse!
E' qualche tempo che mi ritorna in mente quella similitudine "vi abbiamo suonato il flauto, e non avete danzato; vi abbiamo cantato il lamento, e non avete fatto cordoglio!"
Cantiamo, Ausilia, il nostro canto di liberazione, non preoccupiamoci se questo non sarà armonico agli orecchi dei più. E' il nostro canto ed è musica per chi la vuole sentire.
Ti abbraccio

Il punto su questo blog

2maggio 2010

Cara Darianna
Questa volta, mentre continuo la mia conversazione con te, mi rivolgo a coloro che da tempo considero amiche ed amici. E’, questo, un bisogno di tutta me stessa. Non per fare due chiacchiere. Come dice Dewey, sento di avere «qualcosa da dire» (non «da dire qualcosa»), perché ospito in me un laboratorio di idee sentimenti esperienze, che sarebbe un tradimento chiudere alla comunicazione.
Da parecchi anni avevo fatto convergere questo «qualcosa» con la problematica delle donne in disagio nel rapporto con l’istituzione ecclesiastica, su due fronti: quello del coinvolgimento femminile di carattere esistenziale-affettivo nella vita dei preti in crisi, e quello delle ex-suore, deluse nel non poter realizzare all’interno dell’istituzione i loro ideali, meglio: la loro vocazione. VOLEVO PARLARE “DA DONNA A DONNA” (come recita il titolo di un mio libro), tenendo molto presente la PARTE MASCHILE. Ne sentivo la responsabilità, data l’incarnazione delle due tipologie di donna nella mia persona.
Ora le due esperienze-in-una si sono sedimentate e ritengo di dover fare un passo ulteriore.
Dopo dodici anni di dialogo aperto attraverso il sito “Donne-contro-il-silenzio”, per me non ha più senso offrire una spalla su cui piangere, e nemmeno aggiungere (tranne che privatamente) altre testimonianze a quelle raccolte finora: un cliché, quando si ripete sempre uguale a se stesso, non serve né alla maturazione delle persone né al cambiamento dei chiamati in causa.
Una volta disincagliata interiormente da appartenenze peculiari, il mio sguardo si dilata. Pur procedendo sullo stesso binario, voglio fare del mio impegno pregresso un paradigma applicabile ad altre realtà, in primis al modo-di-essere sedimentato attraverso il vissuto. E per farlo in libertà e in profondità, ho bisogno di mettere un po’ da parte i vecchi strumenti, di ri-leggermi e di confrontarmi sulla linea di una laicità a tutto spiano. Fermo restando ciò che mi sta più a cuore, la fede, voglio scavare dentro di essa in maniera laica, e cioè nella nudità del mio essere, a prescindere da qualsiasi ‘topos’ precostituito.
Il ricorso a tale criterio mi fa sentire lontana le mille miglia dalla parte più illuminata dei cattolici che denuncia-attaccando le «malefatte» della chiesa con un anti-clericalismo in perfetto stile clericale (l’espressione non è nuova, ma mi pare di averla pronunziata io per prima); e mi fa avvertire la nocività degli atteggiamenti supini dei più, compresi quelli dei credenti che si proclamano laici e dei non-credenti zelanti, nonché dei divi dell’anti-eroismo: tutti accodati a rendere tributo idolatrico, dentro le pieghe del dissenso, a chi ha o ritiene di avere un carisma, spesso per ruolo. Se è vero che non c’è ombra di spirito laico in chi riveste i panni del personaggio per contare e in chi entra dalla finestra nei suoi luoghi fascinosi nella condizione di fan, altrettanto non ce n’è in chi prende di mira il sacro aggirandosi nei suoi paraggi, con critiche infinite ed infinitamente minuziose.
Al largo! Verso vie nuove. Quando si vedono due lottare, è difficile distinguere chi ha torto e chi ha ragione; la lotta sfocia nella vittoria, non del più buono, bensì del più violento. La stessa mitezza va preservata da glorificazioni, sempre devastanti. Ecco: la laicità è formale; non punta sul personaggio e nemmeno sulle idee sane; è (quanto è difficile definirla!) capacità di andare-oltre sia dei personalismi sia delle idee assolutizzate.
Il colloquiare di questo blog cerca rispondenze nella parte di società che vuole dare sostanza all’«autenticità» (attenzione! è da eliminare il logorio del significato del termine): restando al riparo del dubbio che si interroga mentre interroga senza fine.
Ho stima per il femminismo storico, e perciò lo chiamo a confronto nel particolare settore religioso, in seno al quale esso è più sprovveduto, pur avendone succhiato il primo latte. Considero suo maggiore merito l’aver capito che ci va ORGANICITÀ (alla Gramsci) per coniugare singole questioni tra di loro e con la società nella sua interezza. Su questa scia voglia muovermi, in sponda non isolata da altri contesti. Già ai lettori attenti non è sfuggito il senso della mia metamorfosi strategica nel dare corso a questo blog confidenziale; al contrario, in chi si è fermato alla superficie, hanno destato sorpresa le incertezze esistenziali espresse, quasi che fossero ombre da fugare.
Nella scrittura narrativa la cultura femminista ha espresso il meglio di sé. Il racconto della vita ordinaria può gestire idee, eccome, se fa trasparire l’inespresso, spoglio di fatua spettacolarità e di audience.
Voglio esemplificare con una mia confessione la scelta diaristica e colloquiale di questo blog: uno dei pochissimi risultati raggiunti nel mio pregresso impegno di vita è stato quello di avere portato un piccolo contributo, con il racconto delle mie delusioni istituzionali, nelle decisioni prese dall’OMS per evitare il più possibile l’ospitalizzazione dei minori senza famiglia. Dio sa quanti anatemi mi sono attirata, ma ne valeva la pena. Lo so, ci vogliono appunto le grandi organizzazioni per dare concretezza e validità sociale ai progetti. Ma se non si opera nel sottosuolo di base che regge l’edificio, lo si vedrà crollare alla prima scossa; e certamente si richiede un et-et, non un aut-aut.
Dove andrà a finire la questione circa il binomio « donne e preti», che ormai ha non-belle risonanze nelle mie orecchie? Almeno di una cosa sono certa: non si otterranno risultati fino a che i soggetti non sapranno rompere il cordone ombelicale che li lega ad un’identità immobilizzata sul modello di Legge che vogliono cambiare. E con ciò non plaudo a coloro che imboccano vie tortuose di travestimento.
Col parlare colloquiale di questo blog, in apparenza occasionale e avulso da singole problematiche, miro a provocare chi legge alle durezze del Pensiero non-immediato; ad incoraggiare la messa in moto di energie spirituali scevre dai facili aggreganti spiritualismi di oggi; energie robuste e coraggiose perché tratte dalle radici del proprio essere.
Ma, per favore, non lasciatemi sola. Inseritevi anche voi, fattivamente, nelle conversazioni lanciate da me e da Darianna, interlocutrice principale.
Già, te, Darianna. Trans a cui è vietato di continuare a fare come un tempo il pastore in una chiesa cristiana; di essere accettata per quella che sei e di avere i mezzi per tirare a campare. Mi affascina la tua personalità di credente col dubbio piantato in cuore. Il tuo stile di libertà nel raccontarti non riesce ancora a farti felice perché hai il mondo contro, ma forse sei tu a regalare agli altri la liberazione dalla schiavitù dei pregiudizi.
Ausilia

sabato 17 aprile 2010

La Pasqua

Con ritadro, se poi riflettere sulla pasqua abbia una effettiva collocazione temporale, mi accingo a riflettere sulla base delle tue sollecitazioni.
Cara Ausilia, non so se colgo fino in fondo il senso della tua pagina di diario. Sono forse troppo influenzata dal mio pensiero e dallo sviluppo teologico che ho maturato nel corso della mia esistenza.
Uscire dalla retorica teologica, confessionale, dogmatica diventa una necessità di chiarezza personale e nei confronti degli altri. In un tempo dove tutto assume la dimensione di una grande vaghezza, di una nebulosa indistinta dove tutto può trovare luogo purchè formalmente si salvi l'enunciato base, pretende da parte nostra il coraggio di dire e di affermare il senso, per quanto questo poi risulti fuori dalle righe, fuori dal coro.
La pasqua è il passaggio, e nel pensiero biblico è il pasaggio dell'angelo della morte che uccide tutti primogeniti d'Egitto, ad esclusione delle case che erano segnate dal sangue dell'agnello. Ecco! Stiamo parlando di questo? Definiamolo, poiché chiarezza lo impone. Personalmente non riesco a scindere lo sviluppo del mio pensiero e di ciò che vivo da questo; né è base costitutiva e sostanziale, elemento fondante e determinante dell'interpretazione complessiva che do alla mia esistenza. Raramente lo esplicito, ma in questo contesto e sotto la tua sollecitazione, lo faccio con piacere.
Come ben sai, mi definisco eterodossa, nel senso che ho una comprensione ed una chiave interpretativa della mia esistenza che non nega le altre, ma che prende le distanze senza polemica o scontro nei confronti delle chiavi interpretative date dalla visione ortodossa.
Ho piacere di dire questo, proprio perché entro - sebbene forse in termini diversi dai tuoi e con concetti diversi dai tuoi - nello squarcio che in te si apre. Non per approffitare di te, ma perché questo mi apre la possibilità di dire qualcosa che, sebbene non rischiesta, trova la sua legittimità proprio in questa tua apertura.
La dimensione di precarietà che tu descrivi posso comprenderla, per quanto mi rimane oscuro il perché tu debba avere "senso di vergogna e colpa". Non sono migliore, non sono peggiore, sono solo una che comunque - in un modo o nell'altro - il sangue di quell'agnello ha posto sullo stipite della sua porta. Mi rende tranquilla? No! Al contrario mi rende persona agitata, sempre in costante lotta con qualcosa e qualcuno, intollerante verso l'ipocrisia intellettuale come verso l'ipocrisia formale del luogo comune, dell'adagiarsi nella comodità di un pensiero imposto e non riflettuto, acriticamente accettato perché conveniente ed uniformante. L'ipocrisia di sentirsi nella norma e di porla come status autentico è quel qualcosa che supera la mia capacità di accettazione; muove in me la ribellione composta di chi è consapevole di condurre una battaglia e la conduce a partire dalla propria debolezza ed insignificanza.
Si, la resurrezione è un grido di dolore! Ma perché? Non ho verità, se non quella mia inutile e parziale verità che costantemente metto in discussione, nella disperata ricerca di un confronto dialettico e basato, che non si arrocchi dietro la perfidia del dogma, ma che guardi all'umanità di cui io sono pervasa ed intrisa.
La vocazione, l'assunzione di una vocazione e di un ministero è grido di dolore, poiché ha di fronte a se lo stigma e la proiezione della croce. La resurrezione ci pone di fronte, non dietro, la croce che è l'arrivo definito dell'ubbidienza e della fedeltà. E come prescindervi? Come superarla? Poi, perché superarla? Se questa è l'assunzione consapevole del proprio esserci e del proprio porsi di fronte alla storia ed ad una umanità aggravata, dimensione presuntuosa della consapevolezza di sé, dell'esserci come testimoni nei fatti, parole pronunciate da d-o, per questo tempo ed in questo tempo?
Esco dalla logica di una dogmatica che mi impone a prescindere dai testi, l'incarnazione! Esco dallo schema definito del dover starci dentro! Esco e mi trovo nel deserto di una immensa vuotezza di sensi e significati; affollato deserto di coloro che non hanno terra nè templi a cui rivolgere il proprio sguardo. La resurrezione mi diventa grido, perché prelude al cammino che si ha di fronte in cui è contemplato anche il passaggio del mare delle canne, rosso del sangue degli inseguitori, rosso del sangue di quell'agnello (non Gesù) al quale ho preso vita e sangue per fuggire l'ira, per salvare la mia esistenza ed avere la possibilità di farla divenire vita.
Dove nasconderò la mia angoscia di fronte alla mia resurrezione in questo tempo ed in quest'ora? Non posso nella logica di una illusione post mortem, poiché la resurrezione è qui, ora, in questa storia, in questo contesto socio-culturale-politico ed economico, nel quale non ho possibilità di fughe, non ho altro che il deserto nel quale può, più o meno, risuonare una voce che grida.
L'incontro con la quotidiana condizione umana, nella sua fuga o tentativo di fuga dal presente, mi lascia attonita nella impossibiltà ed impotenza di fare qualcosa. Il dire supera la realtà, poiché non la coglie se non in una fotografia che riguarda il passato, rievoca, ma non annuncia se non il conosciuto. Io sono questa? Sono il passato che si pone nel presente e con scarsa visione del fututo. La resurrezione mi colloca di fronte a me stessa, poiché è della mia resurrezione che posso parlare, quella che non posso più teoreticamente fuggire; devo prenderne atto con il carico di dolore che la constatazione della realtà mi produce.
E' nel presupposto interpretativo che si sviluppa il pensiero, ed il mio è, evidentemente, dissonante! Ne prendo atto e lo vivo!
Ti abbraccio con affetto
Darianna

domenica 4 aprile 2010

Ausilia - Diario di Pasqua 2010

Sono svaniti i pensieri sulla Pasqua dei tempi trascorsi. Lo riconosco: una venatura di retorica serpeggiava tra le righe in cui narravo la mia fede; e non mi riesce facile riconoscermi nel cambiamento sostanziale circa l’oggetto principale sul quale ho impostato la mia vita. Ormai trovo inadeguate, in me ed attorno a me, le ambiguità di cui ci pasciamo tutti. Oggi più di ieri il velo di Maya cerca invano di nascondere le incertezze dell’esserci per caso o quasi. Non è forse vero che l’universo intero potrebbe precipitare da un momento all’altro? che le consequenzialità di quanto avviene sono sommerse da contraddizioni che fanno presagire l’esplosione? che l’umanità vuole raggiungere la pienezza e non riesce a darle spazio? che le opinioni dei nostri accanimenti logici sono fuochi fatui? Il mio giudizio sulle tortuosità che insidiano la verità si estende a tutto l’arco che va dalle religioni alle filosofie al senso comune al quotidiano. E quando tento di rompere quel velo pietoso, mi pervade un senso di vergogna e di colpa per non essere la persona perbene della cui maschera mi sono rivestita finora in buona fede.
Eppure.
Eppure ogni tanto, come nella pasqua di oggi, uno squarcio solleva a mia insaputa quel velo, e mi fa posare lo sguardo sull’ignoto. Si illumina un quadro estremamente vuoto, tanto da vedere, anzi non vedere per troppo abbaglio, che luce. Stremata, prendo il coraggio con tutto quanto rimane di me e accetto di vacillare nello spazio svuotato di tutto. Erano illusioni a nutrirmi di incongruenze, tanto che ora non ci sono più, e assieme ad esse è scomparsa la loro radice di dolore di male di assenza di morte.
Non chiedetemi quale è il volto di questa visione, meglio, di questa non-visione. Perché dovrei usare parole innominabili incomunicabili inesistenti.
Posso solo esemplificare. La metto sull’impersonale per accennare ad una possibilità per tutti.
Chi non ha sobbalzato di «en-tusiasmo» di fronte al bello? In un bimbo, in un fiore, in un sentimento puro, in un’opera d’arte, in una piega nel volto di chicchessia, in una particella, in un soffio... La bellezza della risurrezione ad un altro modo di essere può profilarsi perfino in un grido disperato, dove è assente ogni speranza concreta. Ne sono profeti, ad esempio, genitori quando, privati di un figlio, dicono: “che questa disgrazia sia evitata ad altri, che serva a qualcuno”. E penso anche a «L’urlo» lacerante di Edvard Munch, emesso nel muto linguaggio artistico, che sa farsi compendio del dolore del mondo, prodromo e pedagogo di una felicità, altra già qui, sulla terra. Dolore e felicità senza astrazioni e sublimazioni, semplice commento di un senso che la ragione e finanche la fede non sa dare; che solo la bellezza sa dipingere. Perché il bello non ha realtà autonoma, non appartiene all’ordine dell’essere e del non-essere; è iscritto nell’ineffabile, dentro e fuori di noi. La luce che emana sfugge ai sensi; è senza forma e senza colore, eppure più concretamente tangibile visibile vera.
L’illuminazione degna di questo nome non lascia giocare con le parole perché non accede a luoghi abitati da un bene-bello-vero dal fascino percettibile. Sovrasta l’ombrosa luce terrena, stravolge le apparenze e trascina verso il mistero.
Quei momenti estatici mi restituiscono a me stessa, mi fanno riconoscere. Mi guardo allo specchio per decifrare i segni della trasformazione, e che vedo? Il mio corpo, compenetrato di mistero, è divenuto tutt’uno con l’invisibile luce, priva dei tratti del «terribile sacro» di cui parlano gli antropologi. E’ luce che non mi fa paura, ma mi impone silenzio. A ragione i veri credenti sono testimoni e facitori, non dicitori della verità.
Alla resurrezione descritta nei Vangeli, formulata e professata nel credo, non si può dare il significato di ri-vivificazione o di perennità corporea, perché del corpo muore ciò che è fatto per finire; come il feto e tutto quello che da esso si sviluppa, cedono il posto al corpo maturo.
Nessuno ha inventato le parole giuste per dire la vita compenetrata della Luce che vince la morte. E forse il dolore ha qualche sillaba meno sbagliata della gioia per lanciarne un segnale di vigile allarme contro il Buio. D’altra parte né dolore né gioia possono dare sostanza a parole nuove, che si riferiscano a ciò che E’.
Ecco perché ci muoviamo sballottati di qua e di là quando guardiamo alla vita così come appare. Ecco perché il «sempre» ci pare inutile noiosa ripetizione e ci fa paura quando allude all’aldilà. Il sempre del mistero non conosce stanchezze di ritorno e di re-inizio. E’ il sempre presente già ora nel tempo oltre il tempo, nella vita oltre la vita. A patto di mettersi in gioco e di sfidare la labilità di ciò che muore.
Ausilia

domenica 28 marzo 2010

Cara Ausilia, scrivo di getto, senza una precedente elaborazione ed organizzazione del mio pensiero. Quanto scrivi mi pone una quantità di elementi di riflessione, tutti da affrontare, tutti da analizzare e da sviscerare, quindi procedo facendo una selezione non ragionata, ma di impressione.
La libertà è tale proprio quando non definisce delle modalità, delle omologazioni, degli steccati che definiscono forzatamente delle appartenenze. Ciascuna persona vive la propria schiavitù o la propria libertà soggettivamente, con l'unico discrimine che è la "consapevolezza" di sé. Infatti non ritengo che l'accettazione di sé sia discriminante nella dimensione della libertà o della schiavitù, ma piuttosto la consapevolezza di esserci come persone libere o come persone schiave.
La consapevolezza potrei tradurla o meglio indicarla come "conoscenza di sé", quella conoscenza che è in costante divenire, che non precinde dagli altri, ma che con gli altri da sé si confronta senza perdersi. Intraprendere la strada stetta della conoscenza di sé non è una introversione, ma piuttosto il porre come primaria la condizione che "io" (inteso come ogni "io"), in quanto soggetto unico ed irripetibile, non sono superabile, omologabile, od interpretabile a prescindere ma stessa. L'esser consapevoli di sé non implica necessariamente l'accettazione di sé! I due piani non devono mai essere confusi o sovrapposti. Conosco me stessa, ed è solo nel momento in cui conosco me stessa - i miei liniti, le mie potenzialità, i miei principi - posso trovarmi di fronte alla accettazione di chi sono o meno.
La libertà di interpretarsi, appunto, quella libertà che non può essere sottoposta a nessun giudizio, a nessuna norma o griglia. Accolta in ogni caso a prescindere dall'essere più o meno condivisa.
Altra questione è quella dell'esserci "qui ed ora", che non il "carpe diem" nel senso dell'esclusività dell'oggi, quanto la consapevolezza che io oggi sono il prodotto comunque di ciò che ho vissuto. Lo sbandamento di una persona come me è il fatto di non avere storia, ed il suo vissuto è un bagaglio che può essere usato, ma che non sempre ha una reale intersezione o inerenza con la propria persona. Ciò nonostante ho vissuto, e questo costituisce la componente fondamentale del mio qui ed ora. Del resto, anche la questione del futuro si pone come un elemento interpretativo che deve essere chiarito. Io spesso affermo di non avere futuro, poiché ritengo che oggi sia il luogo della costruzione, della progettazione, della elaborazione, dell'impegno per qualcosa nel quale si crede. Non ho Regni di dio futuri, ma solo la presente signoria di dio che si esercita oggi nella mia esistenza e che mi configura come sua serva. Non ho aspettative, piuttosto attese che implicano il mio lavorare nel presente. Piena di prospettive, priva di ogni dimensione illusoria del domani! Oggi è il miglior mondo possibile, ed in questo mondo cerco di lottare, lavorare, costruire perchè migliori - se possibile.
Il mio dio non è impotente, ma neanche onnipotente! E' il dio che mi chiama ed al quale rispondo, il dio che ha un progetto e che per portarlo avanti deve fare i conti con i miei limiti, le mie paure, le mie difficoltà che, proprio per questo, è il dio che non va oltre a me, ma che è "con me". Non so, sinceramente, se con questo mio dire lo "definisco"; spero di no, per quanto comunque sono costretta a darmene una immagine ed una interpretazione.
Come sai, sto organizzando il Congresso Italiano Transgender Transessuali, il cui slogan è il sequente: "io non sono il problema ... io sono la soluzione"!
C'è una stretta relazione in tutto ciò che faccio e penso, ed è il progetto di una società più equa, una società dove ci sia l'affermazione - senza se e senza ma - del diritto di ogni persona ad autodeterminarsi.
Forse proprio per questo sempre l'orizzonte, non certo per raggiungerlo, ma per vederlo costantemente spostarsi con il mio avanzare. Io sono finita ed ho il mio limite, proprio per questo posso cogliere il senso dell'infinito, nel quale appunto, come te, posso e sono pienamente libera di inventarmi.
Ti abbraccio
Darianna

domenica 21 marzo 2010

La libertà di inventarsi 20 marzo 2010

Cara Darianna
Nel leggerti ho provato mille sensazioni e mille motivi di riflessione. Comincio dall’ultima frase, che per me è la più bella: «non esiste un pieno così pieno come il vuoto totale, ed è in questo vuoto che finalmente trovo lo spazio di libertà a cui mi sono sentita chiamata». Non commento, ma aggiungo.
Mi sembra diverso, dal tuo, il modo in cui io vivo la libertà; o almeno sono diverse le deduzioni.
Io non faccio altro che svincolarmi dalle strettoie nelle quali alcuni si lasciano impigliare: non sopporto che altri decida per me, esprima giudizi non richiesti e gratuiti sul mio agire dissentire essere C’è quando mordo i freni per non essere inopportuna, ma appena posso scappo a gambe levate; e quando anche le mie gambe materiali non ce la fanno, ne metto in moto altre invisibili, che mi fanno trovare scorciatoie e mezzi di fortuna con cui raggiungere la «casa» che mi sono costruita dentro, dilatata a spazi sempre nuovi. Introversione? Tutt’altro. Senza maschera riesco a vedere meglio e a socializzare meglio di chi dice sempre «amen-amen» come i vecchioni dell’apocalisse.
Il tuo accenno al vuoto-pieno mi richiama il rapporto intrinseco, sofferto, tra libertà e solitudine. Ogni volta che supero una prova, prendo familiarità col vuoto che mi ha lasciato, e mi accorgo dell’identità tra vuoto come spazio interiore, e pieno come ricchezza senza possesso. Il miracolo lo compie la liberazione; mai totale, e perciò sempre stimolante.
Spesso affermi di riferirti all’esserci qui ed ora. D’accordo su questo punto, da cui partiamo assieme per poi divaricarci.
Il mio «qui ed ora» non è l’attimo fuggente del vagare senza meta. In esso si compendia un passato ed un futuro svuotati, il primo di pesantezze, il secondo di paure. Non è questione di sintesi, ma di novità che si rinnova in ogni attimo: in questo non si vanifica ciò che ho conquistato ieri e non si prefigura un futuro ritagliato sul passato. E non credere che parli di rose e fiori: la fatica e l’impotenza si moltiplicano col passare degli anni di fronte al «cessare»; ma l’avventura diventa interessantissima, davvero nuova. Punto.
Non entro in sintonia col tuo dare attributi al dio che ti resta dopo l’abbandono del primo. Così come non mi convincono le tesi di tanti mistici che parlano del dio-impotente-per-amore. Il mio associarmi al dio di Nietzsche è semplice ricorso ad un’immagine che mi concilia al mio percorso laico: nel quale tutto ciò che ho imparato della divinità ha lasciato una traccia, che ritrovo mia e solo mia per via della novità che vi ho impressa. Ripeto infatti le parole: “mio Dio sconosciuto! / Dolore mio! Felicità mia ultima!”, ma il «mio» ripetuto dal filosofo-poeta la dice lunga dell’intreccio tra questo dio e il suo io. Le vertigini di felicità mista a dolore sono caratteristica del dolore del parto: del dio generato nell’io. E’ questa la felicità che tu dici di ignorare, fatta di dolore non ingoiato a forza né sublimato, ma assaporato fino a farlo divenire carne dell’esserci.
E poi a te piace inseguire l’orizzonte. Io amo lo smarrimento del guardarlo e del trovarlo lontano, il più possibile. Da esso non mi aspetto altro che il vedervi specchiata la mia infinitezza che sovrasta, mentre l’assume, la finitezza. Sì, il bello dell’esistenza è proprio questo misto di finitezza e infinitezza di cui parla Pascal, e non solo lui.
Lo so, le mie parole possono apparire ermetiche a menti pigre, ma non posso annacquare la densità del mio sentire. Ora che la porzione di verità conquistata è a mia disposizione, il pieno che riempie il mio vuoto mentre lo scava sempre più, mi fa dire l’indicibile della verità di me stessa: l’esserci qui ed ora come lo sarebbe un dio finito. Infinitamente finito, o finitamente infinito. E perciò l’unico attributo che gli riconosco e quello che riconosco in me: la libertà di inventarsi.
Cara Darianna, sono sicura che mi segui, e forse riconoscerai come di fronte ad una libertà così intesa, non è giusto tormentarsi a causa della stupidaggine dei guardoni del niente. E’ ora di farti maestra, ad altre vittime «trans», della possibilità di immettere in un presente nuovo tutta la ricchezza cumulata nel dolore. So che non lo farai con moduli scaduti o con gesti inconsulti, ma attraverso la tua novità.
Ausilia

sabato 13 marzo 2010

Sono una viaggiatrice

Cara Ausilia,
Come ben sai, il mio vissuto ha un notevole peso nello sviluppo dei miei ragionamenti e nell'organizzazione del mio pensiero. Alcune mie affermazioni trovano - forse - senso proprio nel momento in cui si conoscono dei momenti salienti del mio vissuto.
Mi chiedi giustamente spiegazione se io prima avessi avuto ... felicità. Non lo so! Tutti narrano di "felicità" negandola o affermandola, esprimendo con questo termine astratto qualcosa che cerchi di identificare un qualcosa che hanno vissuto o che ritengono di non aver vissuto. Io non lo so semplicemente, poichè ciò che normalmente vedo descritto come "felicità" mi è qualcosa di estraneo, qualcosa di fronte al quale mi sento straniera. Ho conosciuto la gioia, la passione, l'esaltazione così come ogni loro contrario. Come te, avvicendo negazione ed assenza, schiavitù e liberazione.
Uscendo dalla metafora ed impoverendone l'immagine evocativa - che tu hai ben colto - l'anfora di cui parlo è la "mia" fede. Oggi questa è vuota, quindi liberata, da un dio che mi sono trascinata dietro per troppo tempo come un cadavere da quando a cinque anni ho naufragato.
Sono nata ed ho vissuto serenamente per i primi cinque anni della mia esistenza, poiché in quegli anni nulla poneva in discussione chi ero. All'età di cinque anni, quasi sei, mi viene imposto di mettermi il grembiulino nero ed il fiocco azzurro, invece del grembiule bianco ed il fiocco rosa. Questa imposizione mi disse che gli altri mi leggevano in modo diverso da come io mi comprendevo. Per farmi diggerire o comprendere il perché di questo grembiule nero e fiocco azzurro, mia madre mi pose di fronte a mia sorella nata da poco. Eravamo molto diverse nel fisico, e questa diversità era lampante. Nell'estremo tentativo di recuperarmi chiesi quando sarei diventata così; la risposta fu "mai!", perchè io ero un maschietto e lei una femminuccia. Questo fu il mio naufragio, poiché mai nessuno mi avrebbe ri-conosciuto. Fu questo il momento in cui iniziai a costruire la mia anfora.
Questa anfora si rompe nell'ottobre del 1997, quando fui costretta ad accettarmi per quella che effettivamente sono: una donna con un fisico maschile. Parafrasando i primi capitoli della Genesi, c'è una domanda che per decenni aveva risuonato a vuoto nel giardino della mia esistenza: "dove sei?" A quella domanda ero sempre fuggita anteponendo il mio abito, la mia maschera, questa mia anfora! Ma quella sera, questa domanda, mi colse nuda e mi costrinse a rispondere semplicemente "eccomi"! Non ci fu felicità, ma angoscia; quella domanda che mi aveva colta nuda non proveniva dal dio dell'anfora e mi chiedeva il "perché" avessi vissuto così tanto tempo mangiando il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Risposi semplicemente che mi sembrava più facile!
Chi mi ha posto la domanda, e che sul fare della sera mi incontra, non mi ha giudicata, contrariamente al dio dell'anfora. Nietzsche morente di quale dio parla?
Sono una viaggiatrice, ed il mio punto di partenza è il mio naufragio che mi ha fatto perdere il senso di ogni arrivo! Viaggio ma non ho alcuna meta, non ho alcun approdo, ma solo la profonda consapevolezza di esserci in questo "qui ed ora" della storia, nella consapevolezza che questo è il miglior mondo possibile.
Un mondo senza dolore, senza schiavitù, senza ingiustizia, senza morte, sarebbe un mondo senza gioia, senza libertà, senza giustizia, senza vita! Sarebbe un mondo senza memoria. Sono una viaggiatrice, e non posso pensare a nulla che sia statico, perfetto, immobile! Forse è per questo che dico di non conoscere la felicità! Sono viva perché sono inqueta, costantemente in agitazione, costantemente alla ricerca di nuove cose, di nuovi spazi. Non ho interesse a raggiungere l'orizzonte, piuttosto mi affascina l'inseguirlo solo perché so che questo si sposta insieme a me. Non so se riesco ad esprimere quanto sento, ma tutto ciò che mi presenta una fissità, un limite, un recinto, mi annoia, mi infastidisce, non è nel mio interesse.
Non posso parlare di "dio" come se fosse "uno", definito, standarizzato da dogmi e da catechismi. Posso parlare di un dio che conosco, ma non so chi sia! Uno fra i tanti dei, diverso da ogni deità! Un dio che ha rinunciato ad essere assoluto e che si è posto nella relatività al momento che si è posto di fronte alla mia esistenza, alla mia pretesa di darne una interpretazione. Un dio giusto perché non ha giustizia di riferimento, che non ha distinzione fra bene e male. Un dio che la storia, la mia storia, se la gioca giorno per giorno e che non sa cosa accadrà domani, perché lo può scoprire solo vivendo il presente con me!
Sono convinta, cara Ausilia, che non esiste un pieno così pieno come il vuoto totale, ed in questo vuoto che finalmente trovo lo spazio di libertà a cui mi sono sentita chiamata.