sabato 6 marzo 2010

Ho fatto naufragio. Ho navigato bene

venerdi’ 5 marzo 2010 da Ausilia
Mia cara,
lungi da me volerti suggerire idee, o riflettere a modo mio su ciò che tu, e soltanto tu, vivi.
Piuttosto ti parlerò anch’io di me, del mio vissuto: quello di oggi. E non per un confronto, bensì perché ciascuna di noi riceve stimolo dall’altra; ed è questo che mi intriga nella splendida amicizia con te . Lo farò sfidando il rischio di distruggere la mia immagine quale appariva a chi riteneva di ritrarla dal vero, mentre mi osservava dall’esterno.
Letteratura e realtà coincidono abbastanza, anche se il piatto della bilancia pende di più dalla parte della letteratura, meno falsa della concretezza della vita. Smontare la loro mistura per me significa distinguere bene i due piani e porsi su un terzo: quello dello spettatore, attento analista in cerca di verità. Bel momento di libertà godersi la scena senza paure.
Già, libertà!
Non c’è libertà se non a partire «da», e cioè dal suo contrario, dalla schiavitù.
Non invidio chi non ha provato, o forse non si è accorto di essere schiavo: degli altri di se stesso di Dio della vita del corpo dello spirito di tutto.
Hai mai pensato come sarebbe il mondo senza la schiavitù annidata nella e attorno alla nostra vita e perfino in seno all’universo? Ricordo le utopie costruite nel periodo a cavallo tra il rinascimento e l’illuminismo. Che squallore in un mondo tutto «pulito», privo delle scorie degli egoismi, o per lo meno cautelato contro di essi; un mondo tanto perfetto da far coincidere la felicità con l’ordine morale, materiale, spirituale. Un mondo più soffocante di quello che tu hai descritto efficacemente attraverso tutte le «negazioni» che ti ha regalato. Mentre ti leggevo con appassionata partecipazione, appena ho incontrato la parola «lotta», ho tirato un sospiro di sollievo, mentre mi tornava in mente la celebre frase: “ho fatto naufragio, quindi ho navigato”.
Poiché scrivo di getto, ti racconto un episodio che risale ai miei anni da liceale: narrando la vita di Rousseau nei suoi particolari ad una mia sorella che aveva fatto della pratica religiosa il tutto della sua esistenza, la sentii rammaricarsi: “che vita disordinata!”. Dentro di me scattò la ribellione contro “la vita ordinata” così come la intendeva lei, assieme alla voglia di uscire dal guscio nel quale era contenuta la mia adolescenza forzatamente prolungata.
Qui mi verrebbe spontaneo distinguere tra schiavitù e schiavitù, e so che sarei capace di cadere nella trappola di ritagliarla su misura del tuo dolore, della tua angoscia mortale, eccetera. Ma non è su queste tonalità che si svolgono i nostri dialoghi.
Passo dunque a dirti come cerco la verità di me stessa, al di là delle definizioni. Condivido il tuo: «di mio non c’è nulla», ma mi sento più fortunata di coloro che ritengono di avere qualcosa di proprio. Poveri illusi! Quanti costruttori di verità del soggetto, dell’oggetto, della loro adaequatio …. Io mi aggiro tra i luminari del pensiero, armata del bandolo del filo di Arianna, nel labirinto delle esperienze, sicché, svegliandomi dalla momentanea condivisione del loro sonno dogmatico (me lo concedo per conoscerli meglio), ritrovo la mia libertà-verità. Vedi caso, ha le stesse parole recitate poeticamente da un Nietzsche morente: “No! Torna indietro! / Con tutte le tue torture! /Tutte le lacrime mie corrono a te / e l’ultima fiamma del mio cuore / s’accende per te, / mio Dio sconosciuto! / Dolore mio! Felicità mia ultima!”. Anch’io, all’uscita dall’illusione, parlo da matta ad un Dio impastato nel mio vissuto di dolore e di felicità, irriconoscibile per via dei bagliori infocati di ultimità, e per via delle mie lacrime che si mescolano alla fiamma in via di spegnersi.
Già, dimenticavo che tu la felicità sembri ignorarla, anche se ne parli indirettamente nella metafora dell’anfora “preziosa e bella prima che si rompesse”. Ti chiedo spiegazione: dunque l’avevi? Bene a sapersi. Io non credo di averne avuta una, e mi sento fortunata perché, in tal modo, non si è rotta. Ma fa lo stesso. Meno male, scusami, che quell’anfora rotta “non faccia più parte di te”. Conta piuttosto il vuoto (di senso di fine di tutto) che ha lasciato nell’infrangersi. Uno spazio da riempire o da lasciare vuoto? A te la risposta.
La mia verità è suggestiva grazie a tale vuoto nel quale si avvicendano opposti stati d’animo. Li intravedo e li lascio fuggire. Di mio resta l’avvicendarsi di negazione e di assenza, di schiavitù e di liberazione.
E continuo a navigare in un mare nel quale so di dover naufragare, remando contro.
Ausilia