domenica 24 ottobre 2010

Parliamo di noi?

Cara Ausialia, parliamo di noi e parliamo a noi. Nei fatti più che a noi stesse, con quale raro ascoltatore o ascoltatrice, non possiamo parlare. Uso il termine "parlare" perché ho la presunzione (per quanto mi riguarda) e la stima (per quanto ti riguarda) che le nostre siano "parole" e non "chiacchere". La parola è performativa, la chiacchera è un passatempo che, nella generalità dei casi, mi annoia.
Se tu sei "Giobbe" io non ti sarò certo "amica", ma "sorella" nel profondo di quel dolore che percepisci e che vivi, della rabbia sorda nei confronti di una società, di un mondo malato che rende sporca ed invivibile d irrespirabile questa terra ai suoi abitanti.
Io taccio, è vero! Taccio perché dovrei scrivere di quale rabbia e di quale dolore mi nutro quotidianamente a causa di coloro che sono potere e principati, che si arrogano il diritto di decretare vita o morte delle persone, semplicemente per loro calcoli opportunistici o per ingrassare i loro ventri. Ma, cara Ausilia, la rabbia più profonda ed il dolore più profondo lo ho per il silenzio dei giusti. Taccio, è vero! Taccio perché dovrei parlare di quel dio che avrebbe risparmiato Sodoma e Gomorra se solo vi fossero stati 10 giusti! Taccio, perché dovrei parlare e dire il perché quel Gesù intimò ai suoi di non chiedere la distruzione.
Ho dolore per quello che vedo quotidianamente, per quello che quotidianamente devo combattere e per quello che quotidianamente è il luogo della mia lotta. Ho rabbia perché i molti che potrebbero dire anche solo una parola non lo fanno, così che le nostre grida sono lanciate nel deserto di una società che è divenuta incapace di capire ed udire parole, per crogiolarsi e bearsi delle chiacchere.
Nel gran vociare del mercato delle chiacchere, accade anche poesia, ma è rara ed alimenta il dolore, ed acuisce la rabbia.
Gli ignavi si scandalizzano, perché è più semplice stare attaccati a qualcosa che sparati nell'universo come una incognita, più semplice credere che non aver fede. Troppo spesso gli ignavi confondono le due cose, e troppo spesso si adeguano a ritener di essere soggetti dell'una e dell'altra.
Spogliata degli stereotipi, dei pregiudizi, malata guarita della malattia di questo mondo (cosmos), come guarita ho compreso che è il mio dio che ha fede in me, tanto da pensare che - nonostante tutto - rimarrò fedele al mandato. Non saranno gli eventi a farmi tacere. Si, lo so, io sto tacendo qui, perché altrove sto urlando come urla chi lotta e si lancia nella mischia, ed io urlo come chi sa bene che potebbe essere l'ultima.
Conto i giorni che cadono come gocce da un vecchio rubinetto, come sabbia che scorre in una clessidra. Arrabbiata, esausta giro ogni giorno quella clessidra per contare il tempo. Così rimangono sei giorni, in un susseguirsi di ritardi e rimandi, di acquisizioni e successi, di prospettive come promesse che non potranno forse mai essere mantenute, eppure vere, reali, pesantemente concrete.
E mi chiedo fino a quando? E non ho un dio che può, piuttosto può nella misura che io posso, ha potere nella misura che io ho potere, esprime potere nella misura che io esprimo potere. Si, perché di potere si tratta! Ed io ho potere, per questo ancora lotto, per questo ancora mi batto. Ho potere e lo gioco, fino in fondo, fino alla feccia. Lo gioco perché può essere l'ultima mia possibilità di giocarlo, e guardo gli altri, i tanti altri - ma non tutti - che questo potere non lo giocano e lo nascondono a se stessi ed agli altri, e mi chiedo a quale fine?
Per chi ha futuri forse un fine c'è, ma per me che non ho futuri non vedo fini o scopi. La mia esistenza si concluderà ad un certo punto, e con essa anche la possibilità di aver memoria di me, se non negli altri, nelle sperdute ed inutili pagine che ho scritto, nelle parole che ho pronuciato, negli atti che ho compiuto, nell'inutilità di una esistenza che si compie nel suo assurdo e vuoto/pieno significato. Si, perché io posso (ho potere) spendere e sprecare la mia esistenza pur di vivere fino in fondo, fino alla feccia, chi sono. Lo posso fare, ho questo potere e lo faccio.
Un tempo ero serva di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; un tempo sono stata figlia di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; ora sono amica di questo dio che non è più mio ed io non sono più sua. Non chiedo e non prego. Oggi parlo anche con questo mio amico, con lui mi confronto e gradisco la sua fiducia.
Sto arrivando alla convinzione che, per quanto io sia stata sconfitta sotto ogni aspetto della mia esistenza, io comunque ho vinto. Si, ho vinto perché comunque io dalla malattia di questo mondo sono guarita.
Ti abbraccio