domenica 4 aprile 2010

Ausilia - Diario di Pasqua 2010

Sono svaniti i pensieri sulla Pasqua dei tempi trascorsi. Lo riconosco: una venatura di retorica serpeggiava tra le righe in cui narravo la mia fede; e non mi riesce facile riconoscermi nel cambiamento sostanziale circa l’oggetto principale sul quale ho impostato la mia vita. Ormai trovo inadeguate, in me ed attorno a me, le ambiguità di cui ci pasciamo tutti. Oggi più di ieri il velo di Maya cerca invano di nascondere le incertezze dell’esserci per caso o quasi. Non è forse vero che l’universo intero potrebbe precipitare da un momento all’altro? che le consequenzialità di quanto avviene sono sommerse da contraddizioni che fanno presagire l’esplosione? che l’umanità vuole raggiungere la pienezza e non riesce a darle spazio? che le opinioni dei nostri accanimenti logici sono fuochi fatui? Il mio giudizio sulle tortuosità che insidiano la verità si estende a tutto l’arco che va dalle religioni alle filosofie al senso comune al quotidiano. E quando tento di rompere quel velo pietoso, mi pervade un senso di vergogna e di colpa per non essere la persona perbene della cui maschera mi sono rivestita finora in buona fede.
Eppure.
Eppure ogni tanto, come nella pasqua di oggi, uno squarcio solleva a mia insaputa quel velo, e mi fa posare lo sguardo sull’ignoto. Si illumina un quadro estremamente vuoto, tanto da vedere, anzi non vedere per troppo abbaglio, che luce. Stremata, prendo il coraggio con tutto quanto rimane di me e accetto di vacillare nello spazio svuotato di tutto. Erano illusioni a nutrirmi di incongruenze, tanto che ora non ci sono più, e assieme ad esse è scomparsa la loro radice di dolore di male di assenza di morte.
Non chiedetemi quale è il volto di questa visione, meglio, di questa non-visione. Perché dovrei usare parole innominabili incomunicabili inesistenti.
Posso solo esemplificare. La metto sull’impersonale per accennare ad una possibilità per tutti.
Chi non ha sobbalzato di «en-tusiasmo» di fronte al bello? In un bimbo, in un fiore, in un sentimento puro, in un’opera d’arte, in una piega nel volto di chicchessia, in una particella, in un soffio... La bellezza della risurrezione ad un altro modo di essere può profilarsi perfino in un grido disperato, dove è assente ogni speranza concreta. Ne sono profeti, ad esempio, genitori quando, privati di un figlio, dicono: “che questa disgrazia sia evitata ad altri, che serva a qualcuno”. E penso anche a «L’urlo» lacerante di Edvard Munch, emesso nel muto linguaggio artistico, che sa farsi compendio del dolore del mondo, prodromo e pedagogo di una felicità, altra già qui, sulla terra. Dolore e felicità senza astrazioni e sublimazioni, semplice commento di un senso che la ragione e finanche la fede non sa dare; che solo la bellezza sa dipingere. Perché il bello non ha realtà autonoma, non appartiene all’ordine dell’essere e del non-essere; è iscritto nell’ineffabile, dentro e fuori di noi. La luce che emana sfugge ai sensi; è senza forma e senza colore, eppure più concretamente tangibile visibile vera.
L’illuminazione degna di questo nome non lascia giocare con le parole perché non accede a luoghi abitati da un bene-bello-vero dal fascino percettibile. Sovrasta l’ombrosa luce terrena, stravolge le apparenze e trascina verso il mistero.
Quei momenti estatici mi restituiscono a me stessa, mi fanno riconoscere. Mi guardo allo specchio per decifrare i segni della trasformazione, e che vedo? Il mio corpo, compenetrato di mistero, è divenuto tutt’uno con l’invisibile luce, priva dei tratti del «terribile sacro» di cui parlano gli antropologi. E’ luce che non mi fa paura, ma mi impone silenzio. A ragione i veri credenti sono testimoni e facitori, non dicitori della verità.
Alla resurrezione descritta nei Vangeli, formulata e professata nel credo, non si può dare il significato di ri-vivificazione o di perennità corporea, perché del corpo muore ciò che è fatto per finire; come il feto e tutto quello che da esso si sviluppa, cedono il posto al corpo maturo.
Nessuno ha inventato le parole giuste per dire la vita compenetrata della Luce che vince la morte. E forse il dolore ha qualche sillaba meno sbagliata della gioia per lanciarne un segnale di vigile allarme contro il Buio. D’altra parte né dolore né gioia possono dare sostanza a parole nuove, che si riferiscano a ciò che E’.
Ecco perché ci muoviamo sballottati di qua e di là quando guardiamo alla vita così come appare. Ecco perché il «sempre» ci pare inutile noiosa ripetizione e ci fa paura quando allude all’aldilà. Il sempre del mistero non conosce stanchezze di ritorno e di re-inizio. E’ il sempre presente già ora nel tempo oltre il tempo, nella vita oltre la vita. A patto di mettersi in gioco e di sfidare la labilità di ciò che muore.
Ausilia