sabato 27 febbraio 2010

Cosa c'è di mio in me

Cara Ausilia, non è facile per me affrontare la questione che tu poni. Il rischio è che io fugga dalla questione scadendo in una riflessione pseudo accademica. Ma fra te e me, fin dall'inizio della nostra conoscenza e del nostro dialogare qualche anno fa, ciò che è stato messo al centro della nostra argomentazione è sempre stato il nostro essere “carne e sangue” su ogni questione. La nostra lealtà e la nostra stima, che prescinde dall'affetto, non ci permette e non può permetterci una fuga nei massimi sistemi. Noi siamo poste nel campo della quotidianità soggettiva e con questo vogliamo fare realmente i conti. Tu ed io, l'una di fronte all'altra a scavarsi dentro nella ricerca di una “autenticità” di se, come “so chi sono, ma proprio per questo mi voglio conoscere”!
Ed allora? Cosa c'è di mio in me? Io, transessuale, donna che si è negata per decenni; donna che oggi è negata da una società miope ed ignorante, cosa posso avere di mio in me? Quale il dono? Cosa mi ha inquinata, devastata, negata? Quale furioso meccanismo culturale, sociale mi ha costretta a non riconoscermi per tutta la mia esistenza? Oggi tu mi chiami a riconoscermi oltre quello che io mi sono già riconosciuta, a fare un passo in più nel conoscere me stessa, oltre a quello che io già posso sapere di me! Cosa ho di mio in me?
Parlo, scrivo e devo avere il coraggio di parlare e di scrivere, poiché io sono una schiava liberata! Ma io sono stata liberata, e per quanto liberata non sono libera, sono e rimango una schiava; ho tutti i segni addosso della mia schiavitù, ho addosso lo stigma della mia liberazione. Quando una persona viene liberata ha come uno sbandamento … è una vertigine che può passare come può non passare! Non è questione fisiologica di chi si trova improvvisamente in uno spazio aperto; è che ora tutto è cambiato, le regole, le condizioni, il modo di rapportarsi; la libertà non coincide con quello che si sogna quando si è in schiavitù! Chi è stata schiava, privata della propria libertà, non ha più dimensione di quale sia la verità, la propria verità! Non ha mai avuto una propria verità! Non ha mai avuto una propria storia. Essere deprivata della propria storia è la cosa più tremenda che possa capitare ad una persona! Una schiava liberata è senza storia, senza un passato spendibile, senza un passato che sia effettivamente suo. Qual è la mia storia di persona?
I miei studi, le esperienze molteplici, le persone che si sono incontrate, quelle che hanno avuto in me un riferimento? Ma tutta questa roba è roba mia? Eppure io né sono piena di tutta questa roba, per quanto non sia la mia storia, per quanto non sia il mio bagaglio, questa è il bagaglio che mi porto dietro, ma quanto mi appartiene? L'inganno sottile del mio nome “Darianna”, come se in un qualche modo potessi appropriarmi di quella storia che non è mia! Come se potessi in un qualche modo dire che il dio di Dario possa essere il dio di Anna, come se potessi affermare che tutto quel vissuto sia il mio vissuto. Cosa c'è di mio in me?
Conosco la sofferenza, ma ho solo una vaga idea di cosa sia il dolore e ritengo il dolore una cosa inutile e priva di senso!
Conosco la gioia, ma ho solo lontani ricordi dell'allegrezza. La felicità è un inganno!
Conosco la serenità, ma non conosco la tranquillità!
La parola che più ha avuto un senso chiaro e proprio nella mia esistenza è “Lotta”. Ho sempre e solo combattuto con me stessa e con gli altri, contro me stessa e contro gli altri! Ho sempre lottato per qualcosa o qualcuno che non ho mai potuto definire, non ho mai potuto dire cosa sia o chi sia! Giocando con le parole potrei dire che so chi è e cosa è, ma che nei fatti non lo conosco. Ma sto giocando con le parole! La questione non è risolvibile con la parola “dio”, in qualsiasi modo la si condisca. Vivo come se dio non ci fosse, penso ed agisco senza poter prescindere da dio. Ma quale dio? Oggi non so quale sia il dio a cui fanno riferimento le persone, le troppe persone che né parlano! Il mio dio non è quel dio!
Si, non posso fuggire la questione che poni, poiché tu interroghi te stessa, forse anche ti rispondi, e facendolo lasci la domanda li, appesa, che attende che di essere affrontata. Cosa c'è di mio in me? Io non riesco a distingue il dono, poiché non lo vedo! Devo fare un arteficio per trovarlo, arrampicandomi sullo specchio della discussione teologica; ma è una finzione, un tentativo giustificativo che non soddisfa! Fai bene a distinguere la grazia dal dono! Sono due cose diverse ed hanno implicazioni diverse! L'apostolo Paolo invoca tre volte il “dono” e gli viene risposto che “la mia grazia ti basti”! A me la grazia del mio dio basta, ma non mi si parli di dono! Non lo vedo, forse perché io sono stanca della vita e stanca di vivere! Vorrei poter semplicemente esistere, senza più la fatica quotidiana di dover interpretare questa esistenza dovendogli dare necessariamente la dimensione della vita! Ed è chiaro che io ho questa stanchezza perché non ho storia, non ho un passato, non ho la fantasia di un ideale, di un principe azzurro, di una famiglia, di una dimensione omologata! Costruire cosa? A cosa serve costruire qualcosa se non a lasciare una memoria che sia degna di essere definita con questo nome?
Ma può essere solo la questione della memoria a darmi la chiave interpretativa della mia esistenza affinché questa assuma la dignità di vita? Eppure non posso fare a meno di vivere, come se fosse una abitudine di cui non riesco a liberarmi, o dalla quale non sono stata liberata, o appartiene a quel senso di vertigine che vive una schiava liberata.
Sono me stessa, ma una me stessa senza storia, senza passato e completamente disinteressata al futuro, poiché, cara Ausilia, di mio in me non c'è nulla!
Forse è l'accettazione del mio vuoto a perdere che fa di me una persona liberata, ma per quanto liberata ancora schiava del ricordo di quando forse riteneva di avere in se qualcosa. Guardo questa anfora bella, che conteneva preziosi profumi, ma che ora è rotta e di quello che conteneva c'è solo un lontano ricordo!
Ci sono, semplicemente ci sono! Senza profumi, senza aromi, ma ci sono! Cosa ci sia di mio in me, forse solo l'essere questa anfora che, prima di rompersi, era preziosa e bella, ma ora è solo un ricordo e non fa più parte di me!

lunedì 22 febbraio 2010

Ausilia 20 febbraio


“Essere semplicemente se stessi”

Cara Darianna,
Prendo le tue stesse parole, mentre mi unisco a te nel farmi la domanda : Quale verità? Quale libertà?
Pur avendo raggiunto quello che mi pare un traguardo della mia vita, la sincerità con me stessa, non posso fare a meno di dubitare di ciò a cui si riferisce il “me stessa”. Sono tante le cose che ci hanno messo e ci ho messo dentro anch’io! Il canto di libertà a cui inneggio si colloca a partire dallo svuotamento del pieno che si è costruito.
Ora voglio sapere cosa c’è di mio in me, non tanto per il gusto di cogliere la mia originalità, bensì per la necessità di capire cosa dico quando parliamo di verità e di libertà.
Ecco perché mi piacciono le tue affermazioni, sia quella posta come titolo di questo mio nuovo intervento, sia un’altra: “senza la necessità di “dover essere” qualcosa o qualcuno”.
Le tue espressioni mi indicano una via di uscita dall’empasse; le traduco così: accettare la mia finitezza, la mia presenza nel qui ed ora, rendendola libera da ciò che mi impedirebbe di viverla come un dato di fatto di cui dispongo, parzialmente, è vero (date le condizioni che imprigionano abbastanza le mie potenze legate alla corporeità non-sana), ma con un margine tutto mio. Mio è ciò che ho cumulato nella lunga esperienza di vita, tesa a non lasciarmi soggiogare dalla “necessità”.
Penso molto a come parla di necessità Simone Weil, la quale non ricorre ad un concetto astratto di libertà velleitaria, bensì alla possibilità di recezione di un dono che esorbita dalla pura esistenzialità necessitante. Un dono da accettare come tale, come ad esempio quando mi giunge il “tepore” (il termine è mio) dell’amicizia che mi avvolge di comprensione e mi apre allo scambio con un tu; o quando sono colpita dal’incanto della bellezza proveniente da qualcosa anche minima, quasi impercettibile, ma che penetra dentro il me stessa, illuminandolo…
La Weil parla di grazia. Preferisco fermarmi allo stretto significato del termine dono. il dono richiede solo disponibilità a riceverlo. Farne tesoro significa per me vivere il qui ed ora con una pienezza-altra rispetto a ciò che di fuggevole penetra a mia insaputa, deviandomi dalla percezione pura di ciò di cui ho sete profonda.
Sospendo perché amo tanto ascoltare te al riguardo. Mi interessa molto dar continuità al nostro discorso. Molto.
Ausilia