domenica 21 marzo 2010

La libertà di inventarsi 20 marzo 2010

Cara Darianna
Nel leggerti ho provato mille sensazioni e mille motivi di riflessione. Comincio dall’ultima frase, che per me è la più bella: «non esiste un pieno così pieno come il vuoto totale, ed è in questo vuoto che finalmente trovo lo spazio di libertà a cui mi sono sentita chiamata». Non commento, ma aggiungo.
Mi sembra diverso, dal tuo, il modo in cui io vivo la libertà; o almeno sono diverse le deduzioni.
Io non faccio altro che svincolarmi dalle strettoie nelle quali alcuni si lasciano impigliare: non sopporto che altri decida per me, esprima giudizi non richiesti e gratuiti sul mio agire dissentire essere C’è quando mordo i freni per non essere inopportuna, ma appena posso scappo a gambe levate; e quando anche le mie gambe materiali non ce la fanno, ne metto in moto altre invisibili, che mi fanno trovare scorciatoie e mezzi di fortuna con cui raggiungere la «casa» che mi sono costruita dentro, dilatata a spazi sempre nuovi. Introversione? Tutt’altro. Senza maschera riesco a vedere meglio e a socializzare meglio di chi dice sempre «amen-amen» come i vecchioni dell’apocalisse.
Il tuo accenno al vuoto-pieno mi richiama il rapporto intrinseco, sofferto, tra libertà e solitudine. Ogni volta che supero una prova, prendo familiarità col vuoto che mi ha lasciato, e mi accorgo dell’identità tra vuoto come spazio interiore, e pieno come ricchezza senza possesso. Il miracolo lo compie la liberazione; mai totale, e perciò sempre stimolante.
Spesso affermi di riferirti all’esserci qui ed ora. D’accordo su questo punto, da cui partiamo assieme per poi divaricarci.
Il mio «qui ed ora» non è l’attimo fuggente del vagare senza meta. In esso si compendia un passato ed un futuro svuotati, il primo di pesantezze, il secondo di paure. Non è questione di sintesi, ma di novità che si rinnova in ogni attimo: in questo non si vanifica ciò che ho conquistato ieri e non si prefigura un futuro ritagliato sul passato. E non credere che parli di rose e fiori: la fatica e l’impotenza si moltiplicano col passare degli anni di fronte al «cessare»; ma l’avventura diventa interessantissima, davvero nuova. Punto.
Non entro in sintonia col tuo dare attributi al dio che ti resta dopo l’abbandono del primo. Così come non mi convincono le tesi di tanti mistici che parlano del dio-impotente-per-amore. Il mio associarmi al dio di Nietzsche è semplice ricorso ad un’immagine che mi concilia al mio percorso laico: nel quale tutto ciò che ho imparato della divinità ha lasciato una traccia, che ritrovo mia e solo mia per via della novità che vi ho impressa. Ripeto infatti le parole: “mio Dio sconosciuto! / Dolore mio! Felicità mia ultima!”, ma il «mio» ripetuto dal filosofo-poeta la dice lunga dell’intreccio tra questo dio e il suo io. Le vertigini di felicità mista a dolore sono caratteristica del dolore del parto: del dio generato nell’io. E’ questa la felicità che tu dici di ignorare, fatta di dolore non ingoiato a forza né sublimato, ma assaporato fino a farlo divenire carne dell’esserci.
E poi a te piace inseguire l’orizzonte. Io amo lo smarrimento del guardarlo e del trovarlo lontano, il più possibile. Da esso non mi aspetto altro che il vedervi specchiata la mia infinitezza che sovrasta, mentre l’assume, la finitezza. Sì, il bello dell’esistenza è proprio questo misto di finitezza e infinitezza di cui parla Pascal, e non solo lui.
Lo so, le mie parole possono apparire ermetiche a menti pigre, ma non posso annacquare la densità del mio sentire. Ora che la porzione di verità conquistata è a mia disposizione, il pieno che riempie il mio vuoto mentre lo scava sempre più, mi fa dire l’indicibile della verità di me stessa: l’esserci qui ed ora come lo sarebbe un dio finito. Infinitamente finito, o finitamente infinito. E perciò l’unico attributo che gli riconosco e quello che riconosco in me: la libertà di inventarsi.
Cara Darianna, sono sicura che mi segui, e forse riconoscerai come di fronte ad una libertà così intesa, non è giusto tormentarsi a causa della stupidaggine dei guardoni del niente. E’ ora di farti maestra, ad altre vittime «trans», della possibilità di immettere in un presente nuovo tutta la ricchezza cumulata nel dolore. So che non lo farai con moduli scaduti o con gesti inconsulti, ma attraverso la tua novità.
Ausilia