sabato 17 aprile 2010

La Pasqua

Con ritadro, se poi riflettere sulla pasqua abbia una effettiva collocazione temporale, mi accingo a riflettere sulla base delle tue sollecitazioni.
Cara Ausilia, non so se colgo fino in fondo il senso della tua pagina di diario. Sono forse troppo influenzata dal mio pensiero e dallo sviluppo teologico che ho maturato nel corso della mia esistenza.
Uscire dalla retorica teologica, confessionale, dogmatica diventa una necessità di chiarezza personale e nei confronti degli altri. In un tempo dove tutto assume la dimensione di una grande vaghezza, di una nebulosa indistinta dove tutto può trovare luogo purchè formalmente si salvi l'enunciato base, pretende da parte nostra il coraggio di dire e di affermare il senso, per quanto questo poi risulti fuori dalle righe, fuori dal coro.
La pasqua è il passaggio, e nel pensiero biblico è il pasaggio dell'angelo della morte che uccide tutti primogeniti d'Egitto, ad esclusione delle case che erano segnate dal sangue dell'agnello. Ecco! Stiamo parlando di questo? Definiamolo, poiché chiarezza lo impone. Personalmente non riesco a scindere lo sviluppo del mio pensiero e di ciò che vivo da questo; né è base costitutiva e sostanziale, elemento fondante e determinante dell'interpretazione complessiva che do alla mia esistenza. Raramente lo esplicito, ma in questo contesto e sotto la tua sollecitazione, lo faccio con piacere.
Come ben sai, mi definisco eterodossa, nel senso che ho una comprensione ed una chiave interpretativa della mia esistenza che non nega le altre, ma che prende le distanze senza polemica o scontro nei confronti delle chiavi interpretative date dalla visione ortodossa.
Ho piacere di dire questo, proprio perché entro - sebbene forse in termini diversi dai tuoi e con concetti diversi dai tuoi - nello squarcio che in te si apre. Non per approffitare di te, ma perché questo mi apre la possibilità di dire qualcosa che, sebbene non rischiesta, trova la sua legittimità proprio in questa tua apertura.
La dimensione di precarietà che tu descrivi posso comprenderla, per quanto mi rimane oscuro il perché tu debba avere "senso di vergogna e colpa". Non sono migliore, non sono peggiore, sono solo una che comunque - in un modo o nell'altro - il sangue di quell'agnello ha posto sullo stipite della sua porta. Mi rende tranquilla? No! Al contrario mi rende persona agitata, sempre in costante lotta con qualcosa e qualcuno, intollerante verso l'ipocrisia intellettuale come verso l'ipocrisia formale del luogo comune, dell'adagiarsi nella comodità di un pensiero imposto e non riflettuto, acriticamente accettato perché conveniente ed uniformante. L'ipocrisia di sentirsi nella norma e di porla come status autentico è quel qualcosa che supera la mia capacità di accettazione; muove in me la ribellione composta di chi è consapevole di condurre una battaglia e la conduce a partire dalla propria debolezza ed insignificanza.
Si, la resurrezione è un grido di dolore! Ma perché? Non ho verità, se non quella mia inutile e parziale verità che costantemente metto in discussione, nella disperata ricerca di un confronto dialettico e basato, che non si arrocchi dietro la perfidia del dogma, ma che guardi all'umanità di cui io sono pervasa ed intrisa.
La vocazione, l'assunzione di una vocazione e di un ministero è grido di dolore, poiché ha di fronte a se lo stigma e la proiezione della croce. La resurrezione ci pone di fronte, non dietro, la croce che è l'arrivo definito dell'ubbidienza e della fedeltà. E come prescindervi? Come superarla? Poi, perché superarla? Se questa è l'assunzione consapevole del proprio esserci e del proprio porsi di fronte alla storia ed ad una umanità aggravata, dimensione presuntuosa della consapevolezza di sé, dell'esserci come testimoni nei fatti, parole pronunciate da d-o, per questo tempo ed in questo tempo?
Esco dalla logica di una dogmatica che mi impone a prescindere dai testi, l'incarnazione! Esco dallo schema definito del dover starci dentro! Esco e mi trovo nel deserto di una immensa vuotezza di sensi e significati; affollato deserto di coloro che non hanno terra nè templi a cui rivolgere il proprio sguardo. La resurrezione mi diventa grido, perché prelude al cammino che si ha di fronte in cui è contemplato anche il passaggio del mare delle canne, rosso del sangue degli inseguitori, rosso del sangue di quell'agnello (non Gesù) al quale ho preso vita e sangue per fuggire l'ira, per salvare la mia esistenza ed avere la possibilità di farla divenire vita.
Dove nasconderò la mia angoscia di fronte alla mia resurrezione in questo tempo ed in quest'ora? Non posso nella logica di una illusione post mortem, poiché la resurrezione è qui, ora, in questa storia, in questo contesto socio-culturale-politico ed economico, nel quale non ho possibilità di fughe, non ho altro che il deserto nel quale può, più o meno, risuonare una voce che grida.
L'incontro con la quotidiana condizione umana, nella sua fuga o tentativo di fuga dal presente, mi lascia attonita nella impossibiltà ed impotenza di fare qualcosa. Il dire supera la realtà, poiché non la coglie se non in una fotografia che riguarda il passato, rievoca, ma non annuncia se non il conosciuto. Io sono questa? Sono il passato che si pone nel presente e con scarsa visione del fututo. La resurrezione mi colloca di fronte a me stessa, poiché è della mia resurrezione che posso parlare, quella che non posso più teoreticamente fuggire; devo prenderne atto con il carico di dolore che la constatazione della realtà mi produce.
E' nel presupposto interpretativo che si sviluppa il pensiero, ed il mio è, evidentemente, dissonante! Ne prendo atto e lo vivo!
Ti abbraccio con affetto
Darianna