giovedì 6 luglio 2017

La vita

La vita è strana, passano gli anni rapidamente, ti ritrovi a ripensare e dare, finalmente, spazio a una memoria. Ripensi ad una amica importante, un dono ricevuto da Adonai, a quanto ti è stata fonte di riflessione ... poi sei trascinata dall'onda degli eventi, travolta dal dover sopravvivere e superare ogni ostacolo che si pone di fronte, non dimentichi, porti ogni cosa con te, ma sparisci.
La memoria ti riporta a considerare, a non far diventare ricordo ciò che ancora è vivo, piuttosto a riconsiderare il tempo nella sua reale dimensione e salutare.

lunedì 1 novembre 2010

La caduta delle foglie d'autunno

Cara Darianna, tu esprimi tante idee 'tue', che mi scoraggi se voglio rispondere a tutto; ma va bene così. Io espungo solo un qualche concetto come quello su Dio, il quale costituisce, secondo te, l'assoluto di ciascuno.
Per me non è così. Vado perdendo il concetto di assoluto nel senso stretto della parola, ma faccio del rapporto con me stessa un laboratorio di sofferente paziente speranzosa ricerca. Ogni giorno cade nel mio autunno spirituale una o più foglie; so che cadranno tutte; e mi piace questo aspetto del cambiamento delle stagioni. Parole sacrosante come amicizia, impegno, e tutto ciò che si riferisce al modo di gestire il rapporto con me stessa e con gli altri, scivolano pian piano sulla terra umida a marcire, e intanto tra i tronchi denudati si fa spazio maggiore per l'attraversamento della luce. Appena le mie sofferenze risultano sopportabili, tutto, anche questa caduta degli assoluti, mi dona serenità e senso di abbandono fiducioso verso Chi ha vovoluto che io esistessi.
Ci sono tanti rimescolamentti nella mia vita interiore, così interessanti, da poterli esprimere solo in poesia. Ed è a questa che mi dedico preferibilmente in quest'ultima mia fase di vita. Ho tanto da dire, soprattutto agli spaventati del mio pessimismo (chi si permette chiamarlo così?) perché non è mai brutta la verità che ne risulta, appunto perchè è sempre un po' più vera della precedente. La depongo in un braciere perchè arda, bruci, fosse anche per distruggere, se ci sono cose da distruggere.
Ma quanto a fare dell'io il proprio Dio, NO NO NO. Ne parlerò un'altra volta. Tua Ausilia

domenica 31 ottobre 2010

Riflessioni libere

Non so se sia effettivamente giusto dire "riflessioni libere" per il tentativo di esprimere un segmento di pensiero. Forse avrei dovuto titolare questo messaggio come riflessioni non necessariamente coordinate, e questo per eludere il tema che mi corre nella testa e che si richiama ai messaggi precedenti. Forse il titolo più adeguato sarebbe "parliamo con dio", ma quante cose avrei dovuto dare erroneamente per scontato? Troppe!
C'è la diffusa opinione che vi sia un solo dio che ciascuno chiama ed individua nella modalità che più gli è consone. Opinione diffusa che si contraddice da sola nel momento in cui in troppi si affaticano a diffondere una loro visione di questo dio, come l'unica visione possibile e vera. Se il dio è unico, perché affannarsi tanto? Si affannano tanto a girare il mondo in lungo ed in largo per portare la loro visione, perchè profondamente sanno che non è vero che vi è un solo dio, ma che vi sono tantissimi dei, tanti quanti sono le persone che hanno un pensiero assoluto. Direi che è la mistificazione non superata dell'ultima evangelizzazione che vorrebbe assimilare per inculturazione chi non è assolutamente assimilabile. Ma ciò che importa è dare l'impressione di un pensiero unico, di un unico riferimento, di una unica possibilità di gestione e di comprensione delle cose. Tutto gira intorno a questo pensiero assurdo di unità che troppo arriva ad assomigliare a quanto scritto nel capitolo 11 della Genesi; si, la così detta storia della Torre di Babele. Questa pretesa di unità, questa pretesa di unicità, questa pretesa di riportare tutto ad uno, ad una esclusiva norma, non è altro che la replica di quanto raccontato in quel capitolo, così come il disastro sociale, politico, economico e, soprattutto, culturale di cui siamo autori e spettatori, altro non è che il logico epilogo di questa ripetizione ottusa di quella narrazione mitica e simbolica contemporeaneamente.
Si dovrebbe avere il coraggio di parlare del proprio dio, così da avere il coraggio di parlare con il proprio dio. Coraggio di vedere le differenze, di enfatizzare le diversità, scoprire come ciascuna persona poi esprime con questa sigla "dio" i propri assoluti etici, morali, ideologici o, molto più semplicemente, i propri interessi soggettivi.
Parlare con dio, parlare ciascuna persona con il proprio dio, significherebbe compiere un atto di verità con se stessi e se stesse. Significherebbe fare i conti veramente con il proprio assoluto e dialogarci se si ha questa possibilità. Provarci non è immune dal dolore, non è immune dal dover fare i conti con se stesse e con la propria storia; implica porsi nella dolorosa condizione di mettere a nudo se stesse di fronte ad un autoinganno che si è perpetuato per tutta la nostra esistenza. Implica trovarsi di fronte a se stessi e non potersi più nascondersi.
Ma poi, ne abbiamo veramente la voglia?

domenica 24 ottobre 2010

Parliamo di noi?

Cara Ausialia, parliamo di noi e parliamo a noi. Nei fatti più che a noi stesse, con quale raro ascoltatore o ascoltatrice, non possiamo parlare. Uso il termine "parlare" perché ho la presunzione (per quanto mi riguarda) e la stima (per quanto ti riguarda) che le nostre siano "parole" e non "chiacchere". La parola è performativa, la chiacchera è un passatempo che, nella generalità dei casi, mi annoia.
Se tu sei "Giobbe" io non ti sarò certo "amica", ma "sorella" nel profondo di quel dolore che percepisci e che vivi, della rabbia sorda nei confronti di una società, di un mondo malato che rende sporca ed invivibile d irrespirabile questa terra ai suoi abitanti.
Io taccio, è vero! Taccio perché dovrei scrivere di quale rabbia e di quale dolore mi nutro quotidianamente a causa di coloro che sono potere e principati, che si arrogano il diritto di decretare vita o morte delle persone, semplicemente per loro calcoli opportunistici o per ingrassare i loro ventri. Ma, cara Ausilia, la rabbia più profonda ed il dolore più profondo lo ho per il silenzio dei giusti. Taccio, è vero! Taccio perché dovrei parlare di quel dio che avrebbe risparmiato Sodoma e Gomorra se solo vi fossero stati 10 giusti! Taccio, perché dovrei parlare e dire il perché quel Gesù intimò ai suoi di non chiedere la distruzione.
Ho dolore per quello che vedo quotidianamente, per quello che quotidianamente devo combattere e per quello che quotidianamente è il luogo della mia lotta. Ho rabbia perché i molti che potrebbero dire anche solo una parola non lo fanno, così che le nostre grida sono lanciate nel deserto di una società che è divenuta incapace di capire ed udire parole, per crogiolarsi e bearsi delle chiacchere.
Nel gran vociare del mercato delle chiacchere, accade anche poesia, ma è rara ed alimenta il dolore, ed acuisce la rabbia.
Gli ignavi si scandalizzano, perché è più semplice stare attaccati a qualcosa che sparati nell'universo come una incognita, più semplice credere che non aver fede. Troppo spesso gli ignavi confondono le due cose, e troppo spesso si adeguano a ritener di essere soggetti dell'una e dell'altra.
Spogliata degli stereotipi, dei pregiudizi, malata guarita della malattia di questo mondo (cosmos), come guarita ho compreso che è il mio dio che ha fede in me, tanto da pensare che - nonostante tutto - rimarrò fedele al mandato. Non saranno gli eventi a farmi tacere. Si, lo so, io sto tacendo qui, perché altrove sto urlando come urla chi lotta e si lancia nella mischia, ed io urlo come chi sa bene che potebbe essere l'ultima.
Conto i giorni che cadono come gocce da un vecchio rubinetto, come sabbia che scorre in una clessidra. Arrabbiata, esausta giro ogni giorno quella clessidra per contare il tempo. Così rimangono sei giorni, in un susseguirsi di ritardi e rimandi, di acquisizioni e successi, di prospettive come promesse che non potranno forse mai essere mantenute, eppure vere, reali, pesantemente concrete.
E mi chiedo fino a quando? E non ho un dio che può, piuttosto può nella misura che io posso, ha potere nella misura che io ho potere, esprime potere nella misura che io esprimo potere. Si, perché di potere si tratta! Ed io ho potere, per questo ancora lotto, per questo ancora mi batto. Ho potere e lo gioco, fino in fondo, fino alla feccia. Lo gioco perché può essere l'ultima mia possibilità di giocarlo, e guardo gli altri, i tanti altri - ma non tutti - che questo potere non lo giocano e lo nascondono a se stessi ed agli altri, e mi chiedo a quale fine?
Per chi ha futuri forse un fine c'è, ma per me che non ho futuri non vedo fini o scopi. La mia esistenza si concluderà ad un certo punto, e con essa anche la possibilità di aver memoria di me, se non negli altri, nelle sperdute ed inutili pagine che ho scritto, nelle parole che ho pronuciato, negli atti che ho compiuto, nell'inutilità di una esistenza che si compie nel suo assurdo e vuoto/pieno significato. Si, perché io posso (ho potere) spendere e sprecare la mia esistenza pur di vivere fino in fondo, fino alla feccia, chi sono. Lo posso fare, ho questo potere e lo faccio.
Un tempo ero serva di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; un tempo sono stata figlia di questo mio dio, a lui pregavo e chiedevo; ora sono amica di questo dio che non è più mio ed io non sono più sua. Non chiedo e non prego. Oggi parlo anche con questo mio amico, con lui mi confronto e gradisco la sua fiducia.
Sto arrivando alla convinzione che, per quanto io sia stata sconfitta sotto ogni aspetto della mia esistenza, io comunque ho vinto. Si, ho vinto perché comunque io dalla malattia di questo mondo sono guarita.
Ti abbraccio

sabato 2 ottobre 2010

Parlo con te, preghiera

Mentre tu, Darianna, taci, ed è facile capire perché, io scrivo ancora.
Mi chiedo a chi vada la lettura di questi miei abbozzi. Forse sono io soggetto ed oggetto di questa scrittura. Potessi far capire ciò che 'passa' dentro di me, non sarebbe inutile a nessuno, né ai miscredenti totali né ai fervidi seguaci di un pensiero di fede che forse hanno assimilato da quando erano bimbi.
Parlo invece con te, preghiera, che almeno sei sempre lì ad aspettarmi.
La prima cosa che ti dico è che mai come ora mi sono sentita disperatamente sola e mi sei rimasta solo tu. Mi appartieni; sei l'ordito in cui hanno (ed ho) tessuto tutto il resto di me. Sei l'unico genitore rimastomi, che compendia tutte le persone a cui sono stata apparentata.
Perciò ti tengo stretta a me: in te riconosco il bisogno di sapere che non sono venuta sola al mondo, e se lo sono diventata, fino a che emanerò l'ultimo respiro, tu resterai con me, così come sei: il tu-ignoto, o il tu dentro il quale c'è forse qualcuno Ignoto. Come potrebbe vivere un io senza un tu? Ti accetto così come sei, purché possa parlarti come ad un tu.
Ma l'ultimo istante vorrò dirti: cosa vuoi ormai più? Ti ho pregato perché ti ho riconosciuta parte-altra di me; sei l'unica che sei stata sempre a mia disposizione, e anche quando io facevo la sorda, tu restavi ad aspettarmi.
Ora, tra non molto, ci lasceremo. E’ bene che ci diciamo le cose fino in fondo.
Ti rimprovero e ti ammiro perché non mi hai detto mai dove andrò; tu lo sai che, quando mi prestavi in formule delle risposte, io non ci credevo, tanto erano rozze e dissennate, melliflue o sciocche, retoriche o pietose.... (Solo qualcuna, sublime poesia, fa nobile eccezione). Le recitavo come fossi stata una bimba che succhia inconsciamente il latte materno senza preoccuparsi di altro che di sfamarsi e di abbracciarsi a quel petto che glielo dava. Sì, conforto me ne hai dato; ma anche abbandoni, nausee (di te); mi hai fatto provare la vicinanza di Qualcuno e di Alcunché, ma a volte ti prendevi gioco di me, facendomi sparire tutto e mi lasciavi parole che ripetevo senza sentimento o mi rifiutavo di ripetere a pappagallo.
Ora, verso la fine comincia la festa, così bene anticipata dalle meravigliose costruzioni poetiche e sonore?
Penso piuttosto che comincia già ora l'occultamento nel ventre dell'universo, dove sarò ridotta a quasi-nulla. Ma allora, dimmelo questo per favore, che c'entra ogni aspettativa con la vita che ho condotta finora?.
Non insisto su questo tasto, perché i 'pusilli' si scandalizzano; vogliono che parli di anima, di spirito, di Dio. Io non so nulla di tutto questo, ma mi comporto mentalmente e nei momenti di resipiscenza, "come se ci fosse".
Tu, invece, preghiera, non richiedi una fede. Mi metti in bocca ed in cuore parole, così come 'mi vengono', senza tener conto se non corrispondono alle formule. Io, per compensarti della tua magnanimità, sai cosa farò quando ti userò per 'ultima volta? Ce la metterò tutta a raccogliere i miei sentimenti, pensieri e virtù teologali per emanare un grido di severo rimprovero a chi appesta il mondo con ogni specie di male e di dolore. Tu non hai fatto nulla a favore di quanto io anelavo riguardo a ciò; forse non potevi; non sei che una impotente altera-ego. E a me non resta che la rivincita di sfogare tutta la rabbia contro il mal-vivere di tutti nel mondo.
Dopo di che, reciterò il mio ultimo AMEN.
Sì, amen, perché, lo riconosco, c’è tanta ricchezza in me. So che - sarà stato grazie al tuo aiuto, o preghiera - il bene l'ho cercato e l'ho amato davvero, e per esso, e solo per esso, ho lasciato che la mia vita continuasse accanto a chi CAPISCE COSA E' SOFFRIRE. A modo mio, io, disperatamente sola, ho cercato - almeno dentro di me - di stare accanto ai disperati della terra.
Se in cambio di questo potessi ottenere un po' di pace.... Ma no, allora mi smentirei; sarebbe il crollo dell'unica idea sana che mi fa partecipe del mondo.

mercoledì 29 settembre 2010

Parlo al dio di Giobbe

Cara Darianna, tu sei priva di speranza e me ne dispiaccio. Ma io sarò più catastrofica perché dirò la verità che tutti vogliamo nascondere nei modi più ambigui. Mi si rimprovererà la mai mancanza di fede e mi considereranno perduta moralmente e spiritualmente? Facciano. S’accomodino in salotto a parlarne. Io questa volta voglio parlare così. Questa libertà me la prendo col dio di Giobbe.:
Sofferenze parlano in modo vario nei visi di persone provate dalla sventura.
Permettetemi di cominciare dal coniglione che se ne sta chiuso (in una casa dove vivo per un po’ di tempo) SEMPRE in una gabbia che appena appena lo contiene. Non gli fanno mancare cibo né acqua perché deve vivere per dare a gente stupida la soddisfazione che esiste un vivente d’altra specie, da accudire, da guardare una volta tanto (non tanto). Lui qualche volta batte non so cosa quando vede qualcuno che si muove dietro la sua prigione senza spazio vitale. Ho provato a guardare i suoi occhi. No so se implorassero liberazione, ma certamente portano stampata l’atrocità della sofferenza: e sì! Questa la capiscono gli animali, e la vivono nell’infelicità assoluta. Mi verrebbe da gridare che la ferocia umana è insopportabile, che io non ci sto bene per questo in un mondo fatto così.
E non mi si dica che ci sono moltissime altre sofferenze, soprattutto quelle umane. Elimino subito questo termine ‘soprattutto’. Il martirio del coniglio non è uno che si aggiunge agli altri come un oggetto si accumula agli altri. Il coniglio è un essere singolo che patisce, smaltisce in sé il destino notte e giorno, SEMPRE.
Vi assicuro che le sofferenze di tutti me le sento addosso, e se parlo del coniglio è perché lo vedo ogni giorno. Mi sarebbero più sopportabili le mie, se fossi io un’eccezione. Invece che visi, Dio mio! Gente trasportata in carrozzella: chi le guida sempre soddisfatto di offrire una divagazione; ma il sofferente è un rassegnato, piegato ad un’insopportabile inerzia. Ma la vita per lui c’è solo per poter digerire il suo stato pietoso: perché?
E poi, e poi? Vi pare che ignori le schiavitù di ogni giorno, solo perché ho accennato a queste?
Predicatori di ogni giorno, retori tutti! anche se sotto i panni di ‘pezzi grossi’, politici soprattutto: vi ODIO. Lasciatemelo dire. Vi associo senz’altro ai mafiosi. Tutti, altrimenti vu contentereste di un piccolo stipendio: o fate questo o non credo in nessuno di voi.
Solo di tratto in tratto si vede qualche luogo – ahimè quanto pochi ce ne sono! – dove si sfrutta quel che di vitale sussiste in queste vite morte e si ridà modo di vivere la loro vita in una forma di normalità accettabile. Fino a quanto si prenderanno cura di questi? Quando diverranno del tutto inabili, la crudele natura non potrà essere sconfitta, ed allora anch’essi ritorneranno ad essere conigli nella gabbia del proprio corpo e degli avari controllati spazi che saranno concessi a beneficio degli stipendiati attraverso la loro prigionia.
Ci si lamenta della mancanza del necessario per la sussistenza delle famiglie. Si vogliono stipendi più sicuri. A parte il fatto che spesso gli stipendi non bastano perché non bastano a soddisfare bisogni indotti, spesso inutili o dannosi, E’ questo il motivo del contendere tra destra e sinistra? Li sopporterei se si preoccupassero di questo (assieme a tutto ciò che è necessario perché non si muoia di fame e di freddo, di mancanza di istruzione e di mezzi per comunicare con la vita sociale… e non ho voglia di specificare). Ma ma ma…. La vita sociale è malata, e si rimedierebbe di più senza le politiche ladre a tutto tondo, da sostituire attraverso una gara a denudarsi di privilegi e di prestigio.
Ma, Dio mio, vuoi che questo mondo lo aggiustino questi signori, qualche verginella che prega in clausura, qualche devota di P.Pio & company?
Per ora mi fermo qui perché non trovo risposte e temo le risposte arroganti di chi parla di SPERANZA, senza pensare che questo mondo bisogna rifarlo daccapo, o…. che sia distrutto. Subito.

domenica 19 settembre 2010

Ritrovarmi ...

Scvrivo di getto, non ho altra possibilità di scrivere! Leggo le tue parole, Ausilia, e mi trovo portata a vedere ciò che faccio sempre finta di non vedere.
Come posso io aiutarti in un qualcosa? Non ho idea! Potrei dirti che chi non perde la propria vita non la trova, ma forse questo aiuterebbe? Non so, a me lascia un senso di profondo vuoto. Non riesco a leggere quanto hai scritto nella logica della dragma perduta, del tesoro nascosto, della perla di valore. Non riesco a trovare il nesso in me, e come ben sai non mi azzardo a trovare nessi in te. C'è gioia nel ritrovare qualcosa che si era perso, ma appunto che si ritrova. Ma quando si perde qualcosa o qualcuno e si ha consapevolezza che non lo si può più ritrovare, la gioia dove può essere ricondotta? Solo nella memoria dell'azione che imprime una eredità che si perpetua nel pensiero e nell'esistenza.
Scrivo così, perché leggo quanto hai scritto e tutto mi si riconduce, mi interroga sempre e comunque su me stessa. Io che sono persona che è stata costretta a doversi nuovamete inventare, nuovamente trovare, nuovamente ripensare, non mi sono poi praticamente ritrovata in cominciare "da capo", quanto un tentare malamente di continuare ad esistere sulle briciole che sono rimaste.
Sono arrivata alla convinzione - mai definitiva, ma pur sempre presente e contestuale - che nell'esistenza di una persona non c'è un punto ed a capo, quanto piuttosto un continuo, dove ciò che si trasforma sono quelle sensazioni, pensieri, impressioni che io chiamo "marcatori" della nostra esistenza. Quell'inisieme di cose che da aspetti e luci diverse nella nostra interpretazione dei nostri principi e presupposti.
La mia "vuotezza" dichiarata, che riversa quantità di cose senza un senso logico, come impressioni e sensazioni che si susseguono investendo - senza pietà e rispetto alcuno - altri, non sono che il prodotto di quei marcatori che mi fanno ritenere e mi fanno oggi comprendere come un "re mida" al contrario, poiché tutto ciò che tocco diventa fango e non oro, complice della stessa dimensione di assurdo e di ingordigia che caratterizza la figura di "re mida", così come caratterizza me e la mia storia di persona disutile e non nel senso evangelico del termine.
Ritrovarmi significa toccare con le dita e le mani intere questa mia predisposizione al fallimento, questa mia predisposizione alla sconfitta non voluta e sempre subita. Mi ritrovo, si, ma deprivata di ogni desiderio e di ogni spinta emotiva o affettiva; spenta nel senso del mio stesso vivere; condannata ad un esistere per responsabilità. Mi trascino, più che ritrovarmi, tutt'altro che interessata ad un nuovo inizio, poiché troppi ne ho iniziati, troppi sono finiti così che ogni volta mi è sembrato di vedere un film già visto, film di cui ora non ho più curiosità di vedere se qualche fotogramma mi è sfuggito.
Il film è lo stesso. Agire? Parlare? Impegnarsi? Dedicarsi? A fronte di cosa?
Veramente oggi tutto ciò che mi è di fronte appare come "pula", come "vento".
A nulla è servita la mia esistenza, a nulla serve, a nulla potrebbe servire.
A differenza di te, Ausilia, io non ho lasciato nulla perché nulla ho avuto. L'amara constatazione della mia esistenza è che nulla è servito e nulla serve; che per quanto attorniata da persone pochissime ci sono state, e quelle pochissime le ho trascinate nel baratro del mio nulla.
Anche io, carissima sorella mia, attendo di una infinita attesa solo per la serenità di chi ancora ha coraggio a volermi bene.
Darianna